mercoledì 2 agosto 2017

La biochimica al servizio della biologia molecolare

La biologia molecolare, seppure fondata sulla discutibile teoria del codice genetico, non avrebbe potuto fare un solo passo avanti se non avesse avuto al proprio servizio la biochimica. E' quest'ultima che ha fornito strumenti d'indagine, sperimentazioni e risultati alla biologia molecolare, indagando in vario modo le macromolecole della vita: principalmente proteine (enzimi), acidi nucleici e i loro costituenti, rispettivamente: aminoacidi e nucleotidi.

Paradossalmente, la biochimica ha rovesciato la metodologia della chimica, perché, se quest'ultima, nelle sue sperimentazioni, ha dovuto fornire energia, riscaldando, la prima ha dovuto togliere energia, raffreddando, per poter indagare le macromolecole nella forma di cristalli. "Le operazioni tipiche della chimica consistono nel mescolare e nel riscaldare, quelle della biochimica consistono nel raffreddare e purificare".*

Strano paradosso questo, che si è potuta affrontare la difficile questione dei processi molecolari della vita solo nella forma più lontana dalla vita stessa: la forma cristallina. Ora, quando si riduce una macromolecola allo stato di cristallo, non solo non si ha più a che fare con la stessa molecola allo stato vivente, ma la si isola come un fotogramma istantaneo di una lunga e complessa sequenza: è l'istante bloccato di un movimento caotico, è l'ordine apparente estorto al disordine reale. Come abbiamo visto con la scoperta della doppia elica del DNA, raccontata da uno dei suoi autori, Watson, l'ordine cristallino era proprio ciò che ci voleva per la questione del DNA nei termini del determinismo riduzionistico.

L'indagine delle macromolecole, ridotte alla forma di cristalli, ha permesso la conoscenza della loro struttura, beninteso non della loro struttura come si presenta nei processi della vita, ma come si presenta "raffreddata" e "purificata", ossia come si presenta nei procedimenti sperimentali: come si dice, in vitro, non in vivo. Questo risultato ha lasciato un pò di amaro in bocca al riduzionismo deterministico biochimico, suscitando obiezioni contrarie tipiche del determinismo olistico: "Si è obiettato che, in ogni caso, le particelle estratte non possono essere uguali a quelle in vivo, perché queste si trovano al centro di un complesso intreccio di interazioni metaboliche".**

Come abbiamo già visto in biologia generale, il determinismo olistico è stato una reazione di compensazione al determinismo riduzionistico, ma non può essere la soluzione: olismo e riduzionismo si contrappongono soltanto perché né l'uno né l'altro rappresentano l'impostazione giusta per comprendere la realtà naturale: essi rappresentano i due opposti diametrali tipici del metodo metafisico. Il riduzionismo ha preteso di poter conoscere la vita riducendola a processi chimici, l'olismo ha preteso di conoscere la vita come totalità organizzata; ma entrambi non hanno saputo rendere conto della vita come complessità che si mostra nella forma naturale di contenitori di contenitori, ciascuno con la sua cieca necessità fondata su grandi numeri casuali.

Si potrebbe dire che ad ogni contenitore può corrispondere, nell'attività scientifica, un ramo specializzato. Così si può avere una biologia delle specie animali, una biologia degli organismi, una biologia degli organi, una biologia delle cellule, una biologia delle macromolecole. E, andando sempre più a ritroso, di questo passo, si può giungere alla chimica organica, alla chimica inorganica, alla fisica dell'atomo, ecc. In fin dei conti, il riduzionismo un fondamento lo trova proprio nel fatto che questi contenitori di contenitori non sono una convenzione, ma un riflesso della realtà. Solo che il riduzionismo non può risolvere questa separatezza rinviando la ricerca della necessità di un contenitore agli elementi da esso contenuti, perché questo rinvio non avrebbe fine, essendo gli elementi contenuti a loro volta dei contenitori, e via di questo passo.

Jevons, che abbiamo appena citato, parlando del rapporto tra chimica e biologia, ha osservato: "Sembra strano di dover riconoscere nel successivo svolgimento dei fatti un processo di dialettica hegeliana, eppure la tesi era la chimica, l'antitesi la biologia, la sintesi fu la biochimica!" Peccato che la dialettica sia citata solo di straforo e a vanvera! Meriterebbe più attenzione e rispetto. La biologia può essere considerata antitesi della chimica solo nel senso che le leggi che riguardano la chimica non possono risolvere la necessità biologica. Ma la biochimica non può essere la sintesi, perché neppure la biochimica può fornire leggi di necessità alla biologia, se per biologia intendiamo la vita degli individui e delle specie. Può fornirle soltanto al suo oggetto, alle macromolecole, se però non cade a sua volta nel riduzionismo alla chimica.

Per Jevons, la "sintesi dialettica", rappresentata dalla biochimica, consiste soltanto nel fatto che la chimica è stata posta al servizio della biologia. Egli, inoltre, prende in considerazione "due punti di vista sul modo in cui la chimica è applicabile alla biologia", e dice che "essi dipendono da due princìpi generali: l'Analogia e l'Analisi..." "Per analogia s'intende il confronto tra sistemi viventi e modelli costituiti da materiali non biologici. L'analisi è intesa nel suo senso più letterale, cioè come suddivisione degli oggetti in parti più piccole (...). L'alternativa sta quindi nel costruire modelli che imitino gli organismi viventi o nell'iniziare direttamente da questi ultimi e decomporli nelle parti costituenti per cercare di ripetere i fenomeni vitali. In altre parole, cosa deve fare il biochimico? Riempire le proprie provette con reagenti presi da una scansia o con frammenti di organismi viventi."

La questione sollevata da Jevons è d'importanza fondamentale, perciò vale la pena di seguire le sue argomentazioni, non prima però di alcune necessarie premesse. L'analogia è un metodo (non un principio), il quale consiste nel ridurre il complesso al semplice, e che, in ossequio al meccanicismo, concepisce i prodotti naturali come composti di componenti elementari. Poichè, però, gli oggetti della natura si presentano realmente come contenitori di contenitori, avviene che ciò che in un ramo della scienza è concepito come composto, per il ramo superiore (ovvero per il suo contenitore) è solo una particella elementare: così l'atomo è la particella elementare della chimica, ma è un composto per la fisica atomica. Da ciò un riduzionismo senza fine, ma anche senza soluzione.

Nel metodo dell'analogia si possono verificare strani paradossi, come ad esempio quello di Hobbes, il quale riteneva che l'uomo imitasse i meccanismi della natura, e non viceversa. Un'altra analogia paradossale è quella ricordata da Jevons: inizialmente si cominciò a spiegare il mondo non vivente in analogia con il mondo vivente. Così la caduta dei gravi fu interpretata come tendenza a tornare alla posizione naturale, come fossero animali che tornano all'ovile. Allo stesso modo si pensava che i metalli crescessero sotto terra.

"Fu solo nel XVII secolo che ci si rese conto di quanto fosse più logico passare dal mondo non vivente a quello vivente.. Il passo decisivo fu compiuto con lo sviluppo della meccanica, in particolare con la formulazione delle leggi della dinamica, come per esempio la trattazione matematica di Galileo sulla caduta di gravi. La materia inerte e il suo movimento parvero allora estremamente comprensibili e i desiderio di spiegare negli stessi termini i fenomeni vitali divenne irresistibile".

Il padre di questo nuovo modo di vedere, il meccanicismo, fu Cartesio. Nel "De l'homme", egli descrisse un modello di uomo, costruito sui princìpi delle macchine del suo tempo: "orologi, fontane, mulini, ecc., le quali benché fatte dall'uomo, si muovono in vario modo". Equiparando l'uomo alla macchina, Cartesio utilizzò il metodo dell'analogia, ma non tanto assimilando la materia vivente alla materia non vivente, bensì confrontando le forme della materia vivente, compresa la forma umana, con le forme artificiali della materia non vivente create dall'uomo. Queste forme artificiali, denominate macchine, diventarono modelli per interpretare la natura e i suoi prodotti.

Jevons scrive: "Cartesio non era stato il primo a pensare in questi termini, ma ebbe il merito (sic!) di introdurre il "meccanicismo" in biologia, spiegando i fenomeni vitali con gli effetti osservati nei sistemi non viventi". Ma dopo aver attribuito a Cartesio il merito d'aver introdotto il modo di vedere meccanicistico, Jevons critica questo metodo, senza però coglierne l'errore fondamentale.

"L'errore del metodo cartesiano o di qualunque altro metodo consimile di studio della fisiologia non consiste nel fatto che i modelli possono essere sbagliati nei particolari. Anche così, essi potrebbero suggerire, come ogni altra teoria, utili esperimenti. Lo sbaglio sta invece nell'affermazione fondamentale su cui si basa il procedimento intellettuale, e cioè che un processo biologico viene in un certo modo "spiegato" quando si è riusciti a ideare o costruire un modello che lo imiti. Una giusta interpretazione, e quindi, una maggior conoscenza e comprensione della vita, si ha solo quando si confrontano criticamente il modello e la realtà biologica"
.

L'errore non sarebbe quindi nel modello meccanicistico, consisterebbe, invece, nel mancato confronto tra modello e realtà. Ma se un modello riuscisse a imitare la realtà, il confronto sarebbe già bello e fatto. Il vero limite del meccanicismo risulta evidente solo se si considera il nesso esistente tra meccanicismo e riduzionismo. Questo nesso balza fuori dal metodo dell'analisi. Seguendo la critica di Jevons al metodo dell'analisi, che è una critica olistica al riduzionismo meccanicistico, potremo renderci conto del fatto che i biochimici, come i biologi molecolari, oscillano da un estremo all'altro (tra riduzionismo e olismo), senza trovare la soluzione dialettica della polarità singolo-complesso, specifica delle scienze della vita.

La biochimica attua un'analisi riduzionistica: "Purtroppo anche tale metodo non è senza difficoltà: critiche alle operazioni chimiche sono state avanzate già da tempo, perlomeno a partire dal XVII secolo, da biologi i quali sostengono che esse sono distruttive. Non si deve dimenticare il senso della parola "organismo": un organismo vivente è organizzato (sic!) e la sua organizzazione è una caratteristica molto importante e peculiare. Un metodo che distrugga l'organizzazione ancor prima di mettersi all'opera non può, quindi, dare una buona interpretazione della vita".

Il metodo che distrugge l'organismo certamente non può rendere conto della necessità relativa all'organismo stesso; potrà al massimo rendere conto dei complessi che in esso sono contenuti. Il punto fondamentale è quindi che, se prendiamo l'organismo come complesso, non è possibile rendere ragione della sua necessità frazionandolo nelle sue parti costituenti. Solo secondariamente si può dire che "I rapporti spaziali e funzionali tra le varie parti sono altrettanto importanti delle parti stesse" e che "Distruggendo tali rapporti, non solo si perde l'occasione di sapere quali siano, ma è anche possibile che le singole parti si comportino in maniera diversa dal normale".

Insomma, solo secondariamente si può dire che i costituenti di un complesso, separati dal complesso, non si comportano più come tali: una volta isolati essi possono operare differentemente. "Anche supponendo che le parti non siano state sostanzialmente alterate durante le operazioni di isolamento, le proprietà funzionali che esse mostrano in laboratorio possono comprendere, oltre a quelle di importanza fisiologica, altre che non vengono chiamate in gioco durante la vita. Quali, fra tutte le possibilità rivelate dagli eventi in provetta, corrispondono ai veri eventi biologici? E' anche possibile riunire in serie  alcuni eventi sperimentali in modo che essi si inquadrino in maniera convincente, almeno all'apparenza: cionondimeno questo sistema ha una scarsa rassomiglianza con qualunque processo metabolico che operi all'interno delle cellule".

E ancora: "non è detto, per il fatto che un enzima catalizza una determinata reazione in provetta, che la stessa reazione avvenga nell'organismo vivente da cui l'enzima è stato estratto. Anche se esso non è stato funzionalmente alterato durante l'isolamento, in vivo potrebbe agire su qualche altro substrato". "Si potrebbe dire che un enzima si impegna in attività accidentali quando gliene si offre la possibilità e lo fà nella stessa maniera in cui, durante la vita normale, svolge le sue attività principali".

Allora, come risolvere tutte queste difficoltà, messe in evidenza dal punto di vista olistico? Jevons crede d'aver trovato la soluzione con le "organizzazioni gerarchiche": "L'organizzazione degli esseri viventi si compendia in una serie di gradi gerarchici come un'organizzazione di tipo civile o militare (sic!) in cui ogni grado è, con i membri dei gradi inferiori, in caratteristici "rapporti di organizzazione". Per i nostri fini attuali si possono distinguere in tale gerarchia cinque tappe fondamentali". "Dopo l'organismo in toto vengono gli organi come il fegato e il rene; quindi i tessuti e le cellule, le particelle subcellulari e infine le molecole libere in soluzione".

Anche qui, se l'intuizione è valida, è l'analogia che è sbagliata, perché presuppone un determinismo meccanicistico e finalistico che in natura non esiste: una organizzazione civile o militare è pur sempre un "meccanismo" determinato, con le sue finalità garantite dai "rapporti di organizzazione", nei quali il grado inferiore è diretto dal grado superiore.

Quando Jevons dice che "Le parti organizzate in un organismo non si comportano come le parti isolate e disorganizzate, e diversi modi di organizzazione possono condurre a un diverso comportamento", e che "le leggi che governano le parti non sono leggi che governano l'intera organizzazione", intuisce che tra il complesso e le sue parti costituenti esiste una profonda differenza qualitativa. Ma poi egli cerca di legare in qualche modo deterministico il tutto con le parti, e crede di trovare questo legame in analogia con i gerarchici rapporti umani: "E' appunto la gerarchia che riconcilia le esigenze del metodo analitico con l'affermazione che gli organismi integri rappresentano l'effettiva realtà biologica da spiegare. L'organizzazione gerarchica, costituendo un legame  tra le parti e il tutto, rappresenta così uno dei concetti centrali, realmente vitali, della biologia".

Come si vede, Jevons ha tentato, negli anni Sessanta, di conciliare l'esigenza dell'analisi riduzionistica con l'esigenza del metodo dell'analogia, utilizzando un'analogia olistica. In questo modo, però, ha accettato da un lato il riduzionismo della biochimica e della biologia molecolare, mentre dall'altro ha utilizzato il concetto olistico di organizzazione, assimilandolo a una specifica organizzazione, quella gerarchica, come tentativo di garantire la necessità del complesso che l'indagine riduzionistica dei singoli numerosi componenti non è in grado di fare.

La soluzione, come tentiamo di dimostrare da molto tempo, si trova nella dialettica di caso-necessità e di singolo-complesso. Se consideriamo la cellule come elemento singolo di un tessuto o organo, essa appare come singolarità casuale, la cui esistenza è indifferente al complesso; se, invece, la consideriamo come un complesso essa apparirà necessaria, ma solo perché abbiamo cambiato il punto di vista: ora il contenitore non è più il tessuto o l'organo, ma è la stessa singola cellula.

Se indaghiamo le leggi della cellula in quanto complesso, esse non potranno valere per il tessuto o l'organo che la contiene. Le leggi di necessità che riguardano il tessuto o l'organo derivano dalla casualità dei grandi numeri di cellule, ossia sono leggi statistiche. Allo stesso modo le leggi di necessità relativa alla cellule come complesso derivano dalle statistiche dei grandi numeri di molecole. Solo in questo senso possiamo affermare che le leggi del tutto sono qualitativamente differenti dalle leggi delle sue parti, nel senso che la qualità del contenitore non ha nulla a che vedere con la qualità dei suoi contenuti, e quest'ultima esiste solo quando il contenuto, a sua volta, è osservato come contenitore.

Del resto, se prendiamo una cellula di un organismo pluricellulare, e la isoliamo, ci rendiamo conto della giustezza della idea hegeliana di totalitat: nella totalitat i singoli elementi tramontano, ossia perdono la loro individualità. La cellula di un organismo pluricellulare tramonta nella sua totalitat o ambiente cellulare; e quando la si isola essa muore. Per poterla far sopravvivere occorre fornirle un certo ambiente, un certo nutrimento; ma questa cellula, così isolata, non sarà la stessa cosa della cellula entro il suo tessuto, entro il suo organo e, infine, entro il suo organismo.

Se, ad esempio, consideriamo un organo, a prima vista appare una colonia di cellule. Le colonie di cellule esistono in natura e vivono in determinati ambienti esterni. L'organo è, però, una colonia di cellule che non può sopravvivere, che non ha un'esistenza autonoma, al di fuori del suo organismo. Che cosa potremmo dire del sistema immunitario, al di fuori dell'organismo del quale, si dice, attua una difesa programmata e finalizzata? Non potremmo dire nulla, perché non avrebbe senso. Eppure ha senso studiare il sistema immunitario, separando i suoi elementi costituenti. Quale contraddizione! La contraddizione è, però, oggettiva: essa dipende dal fatto, già evidenziato dalla nostra indagine, che ogni complesso prende la sua necessità dal comportamento statistico dei suoi numerosi elementi costituenti (è in questo modo che il caso singolo si rovescia nella necessità complessiva). Questo comportamento è un cieco risultato necessario di un'infinità di singoli comportamenti casuali di costituenti che presi di per sé presentano qualità, peculiarità che, però, soltanto l'indagine di essi come complessi mette in evidenza.

A loro volta la necessità di questi complessi deriva ciecamente dal comportamento statistico dei loro costituenti, che a loro volta, ecc. ecc. La contraddizione è dunque questa: che ogni cosa materiale vivente, come ogni cosa materiale non vivente, si presenta o come complesso contenitore necessario, o come singolo costituente casuale, a seconda di come lo consideriamo, se come contenitore o come contenuto. E, a parte la descrizione esteriore, sempre possibile per ogni ogni cosa, la determinazione dell'essenza necessaria di ogni cosa è qualcosa che non le appartiene e sulla quale non ha alcun potere di controllo, perché le deriva sempre dal caso dei suoi singoli numerosi costituenti.

* F.R. Jevons: "Le basi biochimiche della vita" (1965-74)

** Ibid.


Tratto da "La dialettica caso-necessità in Biologia" (1993-2002)

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