lunedì 28 agosto 2017

10) Il meccanicismo teleonomico della biologia molecolare nasconde la soluzione statistica dell'immunologia

E' sempre capitato a ogni nuova disciplina della scienza della natura che, invece, di arrivare a comprendere il movimento reale si ripetano da capo le solite baggianate. E' successo all'immunologia ed è accaduto alla biologia molecolare: si tratta sempre delle solite baggianate meccanicistiche riduzionistiche: se l'immmunologia, di primo acchitto, ignorò il caso e pretese riduzionisticamente che ogni antigene istruisse ogni cellula linfoide secondo il principio della specificità immunologica, la biologia molecolare non fu da meno stabilendo il principio della replicazione esatta del DNA, intesa come assoluta corrispondenza tra sequenze di DNA e geni codificanti. E neppure la scoperta delle sequenze "non codificanti" ha modificato il modo di concepire il processo DNA-RNA-proteine.

Ma, mentre i biologi molecolari hanno considerato strane e paradossali le deviazioni dai princìpi che essi avevano stabilito, gli immunologi hanno dovuto riconoscere un fenomeno inatteso: l'estrema variabilità sia delle cellule linfoidi che dei loro prodotti immunoglobulinici. Perciò, hanno dovuto ammettere che il fenomeno era comprensibile soltanto in termini statistici. Ma la constatazionr di un fatto non significa ancora giusta interpretazione: così, invece di attribuire la variabilità al cieco caso relativo ai miliardi di singoli elementi in gioco, la maggioranza degli immunologi si sono intestarditi a cercare meccanismi finalistici, pretendendo identificarli in ogni singolo momento del processo.

A parte rare eccezioni, come nel caso di Jerne -che comunque rimase sempre vincolato ai metodi del meccanicismo riduzionistico-, la maggioranza degli immunologi non è riuscita a vedere all'opera la dialettica caso-necessità neppure quando la descrivevano... inconsapevolmente. Si, perché non si sono mai resi conto che quando sono costretti a fare calcoli di probabilità per ottenere le frequenze  di legame anticorpo-antigene, non si tratta di ricostruire in termini riduzionistici il comportamento dei singoli linfociti (che è sempre casuale), ma si tratta di determinare la necessaria frequenza di un complesso di grandi numeri di cellule. Siamo su due piani qualitativamente diversi: quello del caso probabilistico (relativo ai singoli) e quello della necessità statistica (relativa ai complessi).

Uno dei massimi esponenti della "nuova immunologia", S. Tonegawa, in  "Le molecole del sistema immunitario"*, scrive come sottotitolo: "Sono codificate da centinaia di distinti segmenti di gene che possono combinarsi in milioni di miliardi di modi". In queste poche e semplici parole c'è il riconoscimento di un fatto reale. Ma l'interpretazione non è, come ci si poteva aspettare, di tipo statistico. Se seguiamo Tonegawa, possiamo toglierci ogni dubbio residuo riguardo alle tendenze riduzionistiche e teleonomiche della "nuova immunologia" che, pur essendo costretta a maneggiare grandi numeri in calcoli di probabilità, finge di non accorgersene neppure, arrivando persino a minimizzare questi numeri e il dispendio ad essi relativo.

A questo proposito riportiamo, per esteso, il seguente brano: "Il sistema immunitario è essenziale alla sopravvivenza: senza di esso la morte per infezione sarebbe del tutto inevitabile. Ma anche a prescindere dalla sua funzione vitale, il sistema immunitario è un esempio affascinante (!) di "ingegnosità" biologica. Le cellule e le molecole di questa rete di difesa attuano una sorveglianza (?) costante sugli organismi infettanti. Sono in grado di riconoscere (?!) una varietà quasi illimitata di cellule e di sostanze estranee, distinguendole allo stesso tempo da quelle dell'organismo. Allorquando un agente patogeno entra nell'organismo, esse lo individuano e si mobilitano per eliminarlo. Inoltre hanno la capacità di "ricordare" (!) ogni infezione, di modo che ogni successiva esposizione dell'organismo allo stesso agenre patogeno viene risolta con maggior efficienza. Tutto ciò viene effettuato con uno stanziamento di mezzi di difesa estremamente limitato (sic!) che necessita solo di una piccola parte del genoma e delle risorse dell'organismo".

Questa spiegazione su che cosa si basa? Su termini quali "riconoscimento" e "memoria". Ma come è possibile che mille miliardi di cellule diverse siano capaci di riconoscere e di ricordare? Vediamo la risposta di Tonegawa: "L'evento critico nel produrre  una risposta immunitaria è il riconoscimento dei marcatori chimici che distinguono il "proprio" dal "non proprio". Le molecole alle quali è affidato questo compito sono proteine la cui proprietà più interessante consiste nella variabilità della loro struttura. In generale, tutte le molecole di una data proteina prodotta da un individuo sono assolutamente identiche, cioè possiedono tutte la medesima sequenza di aminoacidi. Al massimo possono esservi due versioni di una proteina, specificate rispettivamente da geni paterni e da quelli materni. Le proteine di riconoscimento del sistema immunitario esistono, invece, in milioni o forse anche miliardi di forme lievemente differenti. le differenze mettono in grado ogni molecole di riconoscere una conformazione specifica del bersaglio".

La conclusione è insoddisfacente: una differenza è soltanto una differenza che non ha nulla a che vedere con una immaginaria capacità di riconoscimento. L'immunologo obietterà: "ci si dovrà pur concedere che quando avviene l'incontro tra uno dei milioni di miliardi di diversi anticorpi con un antigene omologo, si tratta di specificità e che questa specificità è funzionale alla risposta immunitaria!"  Ma l'omologia, o affinità chimica di legame tra un anticorpo e il suo antigene omologo, non garantisce di per sé la risposta immunitaria, intesa come singolo riconoscimento. Troppi sono i numeri in gioco.

Insomma, vari miliardi di differenti linfociti producono milioni o miliardi di diverse possibilità (diverse immunoglobuline che possono funzionare come anticorpi) Ora, un qualsiasi fenomeno complessivo, costituito di n eventi uguamente possibili, va considerato secondo due punti di vista qualitativamente distinti, seppure connessi tra loro: uno è il calcolo delle probabilità che accada un singolo evento fra tanti, ad esempio 1/n; l'altro è la verifica che 1/n è proprio la frequenza di accadimento dell'evento in una serie ripetuta di accadimenti nelle stesse condizioni. Così, quando si conosce il numero delle probabilità, come abbiamo dimostrato in altro luogo, si conosce anche il numero della frequenza.

Allora, se 1/10 alla 9 è la probabilità che si formi una qualsiasi combinazione di segmenti genici che dà luogo a un differente linfocita e anticorpo, questo numero rappresenta sia l'ampiezza della casualità sia la frequenza di ogni combinazione. Poichè, inoltre, il numero di linfociti ammonta a 10 alla 12, possiamo concludere che la "frequenza assoluta" di comparsa di una data combinazione è dell'ordine di 10 alla 3. In definitiva, la presenza del linfocita B omologo a un dato antigene è garantita grazie all'ampia base del caso  relativo ai grandi numeri dei linfociti presenti nell'organismo: essa è perciò soltanto una certezza che nulla ha a che vedere con necessità finalistiche, predeterminate e programmate. La conclusione teorica che, di conseguenza, si può ricavare è che la funzione immunitaria espressa dal complesso di mille miliardi di linfociti B è soltanto una cieca necessità statistica, inconsapevole e da nessuno voluta, puro e semplice rovesciamento dialettico del caso relativo al comportamento dei singoli linfociti B.

Occorre, qui, fare la seguente precisazione: quando si parla di un antigene si deve tenere presente che esso si presenta in grandi numeri; un virus che penetra nell'organismo si presenta in numerosi esemplari che poi proliferano in milioni e miliardi. La conseguenza è che si eleva la frequenza statistica del suo incontro con uno dei mille linfociti in grado di intercettarlo. E questo incontro è sufficiente per un'efficace risposta immunitaria grazie all'immediata clonazione dei linfociti B omologhi al virus stesso.

Ora, la questione principale dell'immunologia non riguarda la pretesa specificità anticorpo-antigene e neppure il preteso riconoscimento. Del resto, basta chiedere a un qualsiasi medico che cosa sia essenziale per la risposta immunitaria, la capacità di riconoscimento da parte del singolo linfocita o la presenza di un numero sufficientemente elevato di linfociti? La sua risposta risulterà evidente dalla richiesta di un'analisi del sangue. Insomma, la questione principale che l'immunologia deve risolvere è la costituzione delle cellule del sistema immunitario. La loro pretesa maturazione è smentita dalla loro reale involuzione.

Ma gli immunologi non vedono questa involuzione. Ad esempio Tonegawa dice che il modo di agire dei linfociti B "può essere spiegato con la teoria della selezione clonale, avanzata 30 anni fa da Sir Macfarlane Burnet. A mano a mano che ogni linfocita B matura (!) nel midollo osseo, esso viene destinato (!) alla sintesi degli anticorpi che riconoscono (!) un determinato antigene, o conformazione molecolare specifica. Nel caso più semplice, tutti i discendenti di ognuna di queste cellule conservano la stessa specificità, formando così un clone di cellule immunologicamente identiche. (In realtà qualche variazione viene introdotta (!) a mano a mano che le cellule proliferano)".

Insomma, prendere o lasciare. Questo tipo di teorie, sulle quali Popper ha fondato il suo metodo della "falsificazione", non possono essere né verificate né "falsificate". La ragione è più semplice di quello che si possa immaginare: si conviene di dire che i linfociti B maturano, che essi sono istruiti a riconoscere gli antigeni, ecc. ecc. Ma queste convenzioni non riflettono la realtà involutiva del sistema immunitario, che rimane perciò incompresa. Queste convenzioni riflettono, piuttosto, una testarda volontà antropomorfica, dura a morire, che si manifesta nella pretesa di determinare necessariamente il sistema immunitario come se fosse un'organizzazione con i suoi programmi, i suoi scopi e le sue istruzioni.

Gli immunologi non hanno potuto evitare, però, di vedere che i pretesi meccanismi dotati di programma altro non  sono che maschere del caso. Nel 1965, Dreyer e Bennet hanno dovuto prendere in considerazione il caso nelle loro ipotesi, che Tonegawa riassume adattandole alle esigenze della convenzionale teoria immunologica: "Nel corso della maturazione, la cellula sceglie a caso (sic!) uno dei geni V e lo combina con il gene C dando luogo così a un unico segmento di DNA che codifica per l'intero polipeptide". Insomma, per eludere il caso, basta attribuire alle cellule la capacità di scegliere a caso!

Dice Tonegawa che la teoria di Dreyer e Bennet faticò a imporsi perché fino alla metà degli anni Settanta prevalevano le "teorie secondo le quali un gene codifica sempre per un solo polipeptide e il genoma rimane invariato nel corso di tutto lo sviluppo dell'organismo"; e queste teorie "erano considerate a quel tempo princìpi biologici universalmente validi"! Ma fu l'applicazione della tecnologia del DNA ricombinante allo studio delle immunoglobuline a invalidare i cosiddetti "princìpi universali" della biologia molecolare.

Però non si trattò di una rivoluzione, fu soltanto una riforma spicciola. La faccenda fu risolta coniando un nuovo nome: riassestamento. Da quel momento, il caso, appena preso in considerazione, fu di nuovo eluso, e, per una deterministica compensazione, si cominciarono a cercare tutti i possibili ed immaginabili meccanismi di riassestamento dei geni. Così Tonegawa poté  parlare tranquillamente di "meccanismi responsabili del rimescolamento delle sequenze di DNA per le immunoglobuline", che, come abbiamo già visto, sono pure e semplici combinazioni casuali.

Prima di concludere, possiamo citare un ennesimo richiamo della "nuova immunologia" ai meccanismi convenzionali e fittizi. Scrive Tonegawa: "La contemporanea presenza di meccanismi sia combinatori che mutazionali nella diversificazione dei geni per gli anticorpi è interessante. Perché si sono evoluti due sistemi per far fronte alla stessa necessità? Studi recenti suggeriscono una spiegazione plausibile (!). Sembra che entrambi i meccanismi siano soggetti a un rigido controllo durante lo sviluppo dei linfociti B".

In conclusione, la biologia molecolare è stata costretta, controvoglia, ad ammettere le mutazioni casuali delle sequenze di DNA e anche le casuali combinazioni dei geni per le immunoglobuline. Dopo di che la maggior parte dei biologi molecolari e degli immunologi hanno ritenuto di dover parlare di meccanismi casuali (?!), mutazionali e combinatori. Compiuto questo primo passo di addomesticamento teleonomico del caso, hanno cercato ipotesi "plausibili", in altre parole puramente convenzionali, per spiegare il preteso addomesticamento. Infine, non si sa per quale magìa, hanno fatto uscire dal cilindro della teleonomia nientemeno che i rigidi meccanismi di controllo, che dovrebbero verificarsi in ogni fase del processo immunitario.

[Con quest'ultimo paragrafo chiudevo il capitolo]

 *  Articolo pubblicato su "Le Scienze" 1985.


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Rileggendo il Capitolo XIV del mio Terzo volume inedito, "La dialettica caso-necessità in biologia" (1993-2002), capitolo riguardante il pensiero immunologico, ho ritenuto che fosse ancora valido e che fosse arrivato il momento di pubblicarlo in 10 post, quanti sono i suoi paragrafi.

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