(Continuazione) In uno degli ultimi suoi scritti, il filosofo di Lipsia riassume la sua concezione in maniera molto sintetica: "La sostanza è un essere capace d'azione. Essa è semplice o composta. Sostanza semplice è quella che non ha parti. Sostanza composta è l'unione delle sostanze semplici o monadi. Monas è un termine greco, che significa unità, o ciò che è uno. I composti o corpi sono molteplicità, le sostanze semplici, le vite, le anime, gli spiriti sono unità. Ed è necessario che vi siano sostanze semplici ovunque, perché senza di esse non vi sarebbero quelle composte; perciò tutta la natura è piena di vita".
Come si vede, Leibniz ha rifiutato gli atomi materiali, non potendo evitare, però, per coerenza col metodo riduzionistico della scienza (ereditato dalla teologia), gli atomi spirituali: le monadi. E il lungo discorso su Leibniz potrebbe chiudersi qui, se non avessimo ancora da prendere in considerazione un esempio citato da Bayle, che ci permetterà di concludere sul tema fondamentale del rapporto caso-necessità.
In polemica con Leibniz, Bayle, nel suo Dizionario* produce il seguente esempio: "Immaginatevi una nave, che senza essere dotata di sensibilità e di conoscenza, e senza essere diretta da nessun essere, creato o increato, abbia la virtù di muoversi così destramente, da avere sempre il vento in favore, da evitare le correnti e gli scogli, e da ritrovarsi in porto esattamente quando ciò sia necessario; supponete che una tale nave tenga il mare in questo modo per molti anni di seguito, sempre volta e situata come bisogna rispetto ai cambiamenti di vento e alle diverse situazioni del mare e della terra: converrete che l'infinità di Dio non è di troppo per comunicare a una simile nave tale facoltà: direte, anzi, che la natura della nave non è atta a ricevere da Dio quella virtù. Eppure cio che Leibniz suppone della macchina del corpo umano è più mirabile e stupefacente di tutto ciò".
Come si vede, Leibniz ha rifiutato gli atomi materiali, non potendo evitare, però, per coerenza col metodo riduzionistico della scienza (ereditato dalla teologia), gli atomi spirituali: le monadi. E il lungo discorso su Leibniz potrebbe chiudersi qui, se non avessimo ancora da prendere in considerazione un esempio citato da Bayle, che ci permetterà di concludere sul tema fondamentale del rapporto caso-necessità.
In polemica con Leibniz, Bayle, nel suo Dizionario* produce il seguente esempio: "Immaginatevi una nave, che senza essere dotata di sensibilità e di conoscenza, e senza essere diretta da nessun essere, creato o increato, abbia la virtù di muoversi così destramente, da avere sempre il vento in favore, da evitare le correnti e gli scogli, e da ritrovarsi in porto esattamente quando ciò sia necessario; supponete che una tale nave tenga il mare in questo modo per molti anni di seguito, sempre volta e situata come bisogna rispetto ai cambiamenti di vento e alle diverse situazioni del mare e della terra: converrete che l'infinità di Dio non è di troppo per comunicare a una simile nave tale facoltà: direte, anzi, che la natura della nave non è atta a ricevere da Dio quella virtù. Eppure cio che Leibniz suppone della macchina del corpo umano è più mirabile e stupefacente di tutto ciò".
Leibniz risponde chiedendosi "se l'ipotesi di una tale nave sia possibile; in seguito verrò al paragone che ne viene fatto col corpo umano". Riguardo al primo aspetto: "non sarebbe punto possibile dare ragione di una tale perfezione, e occorrerebbe che Dio vi mettesse mano continuamente, con un perpetuo miracolo". Ma il miracolo è proprio lo scoglio che Leibniz deve evitare: perciò, come può una nave senza pilota comportarsi così perfettamente, senza l'intervento divino nella forma di miracolo continuato? Ecco la risposta:
"Per conto mio, respingo queste leggi naturali che la natura delle cose non costringerebbe punto a seguire. Ma, respingendo quella qualità occulta della nave, si deve riconoscere che nulla impedisce che vi sia una nave, per così dire, con la fortuna dalla sua, in guisa da giungere sempre in porto senza governo, spinta dai venti e dalle maree, attraverso scogli e tempeste, per una pura coincidenza di accidenti favorevoli. E' certo che, qualche volta, vascelli senza equipaggio sono arrivati al porto a cui erano destinati. E' forse impossibile che lo stesso possa accadere più volte a una stessa nave, e di conseguenza, anche tutte le volte che sia messa in mare? (Ciò accadrebbe solo un numero finito di volte). Non essendo infinito il numero di accidenti, non solo Dio, ma perfino uno spirito finito molto eccellente potrebbe provvedere tutti i casi a cui sarà esposto il vascello, e trovare, con la risoluzione di un problema geometrico-meccanico, la struttura di quel vascello, i luoghi, i momenti e i modi di metterlo in mare, che faccian sì che esso si adatti in modo opportuno a quel numero finito di accidenti".
"Per conto mio, respingo queste leggi naturali che la natura delle cose non costringerebbe punto a seguire. Ma, respingendo quella qualità occulta della nave, si deve riconoscere che nulla impedisce che vi sia una nave, per così dire, con la fortuna dalla sua, in guisa da giungere sempre in porto senza governo, spinta dai venti e dalle maree, attraverso scogli e tempeste, per una pura coincidenza di accidenti favorevoli. E' certo che, qualche volta, vascelli senza equipaggio sono arrivati al porto a cui erano destinati. E' forse impossibile che lo stesso possa accadere più volte a una stessa nave, e di conseguenza, anche tutte le volte che sia messa in mare? (Ciò accadrebbe solo un numero finito di volte). Non essendo infinito il numero di accidenti, non solo Dio, ma perfino uno spirito finito molto eccellente potrebbe provvedere tutti i casi a cui sarà esposto il vascello, e trovare, con la risoluzione di un problema geometrico-meccanico, la struttura di quel vascello, i luoghi, i momenti e i modi di metterlo in mare, che faccian sì che esso si adatti in modo opportuno a quel numero finito di accidenti".
Come si vede, Leibniz concepisce l'esempio di Bayle come una situazione di oggettiva casualità: egli ammette che il caso possa favorire una simile nave, facendola giungere al porto di destinazione. Siamo d'accordo, ma soltanto se si aggiunge che tutto ciò può capitare solo come caso rarissimo e assolutamente eccezionale, perché la maggior parte delle navi, in quelle circostanze, fa naufragio. L'esempio della nave di Bayle simboleggia gli infiniti esempi di dispendio e di eccezione statistica che la natura continuamente ci fornisce. In conclusione, il fatto che "nulla impedisca" che una singola, eccezionale, nave senza pilota, abbia "la fortuna dalla sua", non può essere preso ad esempio della economica tendenza alla perfezione come pretende Leibniz, perché esemplifica l'esatto opposto: il dispendio.
Leibniz, ancora una volta, evita la soluzione del dispendio, perché immagina di poter prevedere il caso, mediante la connessione diretta di cause ed effetti, relativi ai singoli oggetti ed eventi. Quindi, un caso determinabile, che egli non si stupisce possa essere attribuito a Dio; un caso che non è più caso, ma necessità: la necessità della predeterminazione causale, diretta ad un fine. Così al posto della reale dialettica caso-necessità, ritroviamo il solito binomio scopo-necessità, attribuito teologicamente a Dio.
Se anche gli uomini, dice Leibniz, riescono facilmente a costruire automi, capaci di dirigersi sulle strade nel modo voluto, adattandosi a un certo numero di eventualità, uno "spirito in paragone più grande potrebbe provvedere a eventualità di numero superiore. E se questo spirito eccellente non si trovasse di fronte ad accidenti già dati, ma avesse la libertà di farli nascere o finire a suo piacimento, gli riuscirebbe ancora incomparabilmente più facile soddisfare alla richiesta, e adattare in anticipo, con un'armonia prestabilita, il vascello agli accidenti e gli accidenti al vascello. Si ha perciò torto nel mettere in dubbio che l'infinità di Dio sia abbastanza grande per riuscirvi".
In questo modo, Leibniz non fa che porre il caso sotto l'ala della necessità divina. In una lettera** scrive: "una verità è necessaria quando l'opposto implica contraddizione; e quando non è necessaria, la si chiama contingente. E' una verità necessaria che Dio esiste, che tutti gli angoli retti sono uguali tra loro, ecc., ma è una verità contingente che io esisto, che esistono i corpi in natura i quali presentano un angolo effettivamente retto. Infatti tutto l'universo avrebbe potuto esser altro da quello che è, essendo il tempo, lo spazio e la materia assolutamente indifferenti al movimento e alle figure".
E così egli riesce a indicare come esempi di verità necessaria solo l'esistenza di Dio, che è una necessità puramente teologica, e l'uguaglianza degli angoli retti, che è una pura e semplice tautologia geometrica, dimostrando in questo modo di non riuscire a vedere la reale necessità, relativa all'esistenza dell'universo. Quando, invece, indica come esempi di contingenza l'io singolo (se stesso) e i singoli corpi con determinate caratteristiche geometriche, egli coglie l'essenza della casualità relativa ai singoli oggetti e individui.
Ma, non riuscendo a vedere la necessità nei complessi della natura, è ovvio che egli ritenga che l'universo avrebbe potuto essere diverso dalla sua configurazione attuale. Solo che non si avvede che questa diversità contingente e casuale riguarda soltanto i singoli corpi e i singoli individui. Tutto è casuale, se si considera il tutto dal punto di vista della singolarità, perché casuale è la singolarità stessa. Allora, la necessità viene cercata altrove, fuori del mondo. Lo abbiamo già visto: per Leibniz, la necessità può essere solo extramondana: Dio. Ma, affermando la necessità divina, teologicamente egli si ritrova in grave imbarazzo perché non sa come conciliarla con la contingenza, ritrovandosi così con la necessità fatale.
Può sembrare paradossale, ma è un fatto che Leibniz, per uscire dall'imbarazzo, consideri il caso allo stesso modo di Epicuro, come condizione di libertà, tanto è vero che egli contrappone alla necessità assoluta o fatalità, la spontaneità contingente o casualità che permette la libertà. Il caso, invece d'essere -com'è- la "causa" della cieca necessità naturale e sociale, è per Leibniz occasione di libertà, anche se teologicamente si trova in contraddizione con la necessità divina. Ma com'è possibile ammettere il caso come libertà, rifiutando la necessità fatale, e nel contempo affermare la predeterminazione divina, la cui necessità non ammette alcuna forma di renitenza?
A questo dilemma non ci poteva essere una risposta scientifica, ma solo un espediente: "Così, benché noi abbiamo libertà d'indifferenza che ci salva dalla necessità, non abbiamo mai un'indifferenza d'equilibrio, che ci esoneri dalla ragione determinante; v'è sempre qualcosa che ci fa propendere e scegliere, senza che per altro possa necessitarci". Insomma, il singolo individuo non si comporterebbe casualmente, e, sebbene non necessitato, sarebbe pur sempre determinato. E ciò perché al singolo uomo non può capitare una situazione come quella dell'asino di Buridano, ossia di dover scegliere in una situazione di perfetto equilibrio.
In definitiva, la soluzione di Leibniz, come già quella di Epicuro, fa dipendere dal caso la libertà-dalla-necessità: l'uomo (nel senso del singolo uomo) è libero dalla necessità perché può scegliere liberamente, ossia spontaneamente nelle situazioni contingenti. La difficoltà, in questo modo, non è però risolta, è soltanto spostata sul momento della scelta fra diverse possibilità.
Leibniz crede di aver trovato la soluzione affermando una libertà di scelta individuale che propende spontaneamente (ossia casualmente) verso la ragione determinante (ciò che di fatto sarebbe una propensione spontanea, casuale, verso la necessità). Lo abbiamo già visto, per Leibniz la tendenza spontanea verso la perfezione dell'individuo coincide con ciò che Dio ha per lui stabilito e previsto, e questa tendenza sarebbe solo certa, non necessaria!
Questa soluzione, che riferita ai singoli individui rappresenta una pia illusione, riferita al rapporto individuo-specie può essere la reale soluzione che spiega le società umane fino ad oggi: nel senso che, se gli individui sono sempre partiti da se stessi spontaneamente, e perciò le loro "scelte" sono sempre state contingenti e casuali, i complessi sociali che chiamiamo società rappresentano la cieca necessità derivata da quelle. E se ciò vale per le società umane, vale a maggior ragione per i processi naturali.
* Da "Estratto dal "Dizionario di Bayle"", di Leibniz
** Lettera che Leibniz scrisse in tarda età (61 anni), al Coste, "sulla necessità e sulla contingenza".
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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume primo Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito
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