lunedì 23 gennaio 2012

III] Le ingegnose riflessioni di Leibniz sulla opposizione tra contingenza e necessità

(Continuazione) Le obiezioni contenute nella risposta di Arnauld presentano un notevole interesse, sia in se stesse, sia per lo stimolo sul pensiero di Leibniz. Arnauld scrive: "Sarete dunque costretto a dire che tutto il resto della natura non è se non "qualcosa d'immaginario e di solo apparente": e a maggior ragione dovrete dire lo stesso di tutte le opere dell'uomo", in quanto appunto opere collettive. Riguardo agli animali, Arnauld sottolinea giustamente le grandi estinzioni, compresa quella del diluvio universale. E che ne fu delle loro anime? Riguardo agli aggregati, egli distingue i semplici "aggregati per accidente", come un mucchio di pietre, da una casa o un orologio. Così, dice, un pezzo d'oro, una stella e un pianeta possono essere considerati come accidentali, ma gli animali sono del secondo tipo: perché, infatti, "un cavallo o una pianta d'arance non potranno essere considerati ciascuno come un'opera completa e compiuta, al pari di una chiesa o di un orologio?"

Se consideriamo la dialettica naturale caso-necessità, distinguendola dal binomio umano scopo-necessità, le difficoltà rilevate da Arnauld possono essere così risolte: l'orologio è un prodotto voluto per un determinato scopo, ottenuto mediante una determinata serie di operazioni umane necessarie, predeterminate; lo stesso vale per la casa, mentre animali e piante sono il risultato non voluto dei processi naturali che rovesciano la casualità in necessità soltanto come prodotto raro di un grande dispendio (estinzioni); infine, il mucchio di sassi è anch'esso un risultato non voluto, puramente casuale: si tratta di una casualità comune, irrilevante, se non per il fatto che dimostra il dispendio stesso, essendo il risultato di erosioni, rotture e spostamenti dovuti ad agenti naturali, per questi sassi, puramente casuali (come puramente casuale è che certi mucchi di sassi finiscano nei selciati per essere calpestati, mentre altri finiscano negli altari per essere adorati). Ma un pianeta e una stella non possono essere considerati come puri accidenti, essi sono un risultato della dialettica naturale caso-necessità, al pari degli animali e delle piante: rappresentano, infatti, la necessità complessiva come rovesciamento della casualità relativa ai singoli elementi.

Ogni altro modo di vedere comporta confusione, incertezza e ogni sorta di difficoltà. Non è un caso che le uniche cose intelligenti che Leibniz afferma su questi temi sono quelle che più si avvicinano alla dialettica caso-necessità, magari solo come ipotesi da respingere. Così è nell'esempio delle orchestre: "Insomma per servirmi di un paragone, dirò che, rispetto a codesta concomitanza che sostengo, le cose stanno come rispetto a diverse orchestre o cori, che eseguiscano separatamente le loro parti, e siano collocate in modo da non vedersi e da non udirsi neppure; ma che, tuttavia, possano andare perfettamente d'accordo, seguendo soltanto le loro note -ciascuna le proprie- in modo che chi le ascolta tutte, vi trova un'armonia meravigliosa, e molto più sorprendente che se vi sia connessione tra loro".

C'è da notare, in primo luogo, che, con questo esempio dell'armonia complessiva di tutte le orchestre, non voluta, né predeterminata, Leibniz ha intuìto il vero carattere della necessità naturale, come rarità statistica di un grande dispendio: infatti, anche a prima vista appare chiaro che un risultato straordinario come quello di un complesso di diverse orchestre, senza un comune direttore, che produca spontaneamente una meravigliosa armonia, può accadere solo come caso eccezionale di un'infinità di tentativi fallimentari. Ciò che, scientificamente, può essere considerata una rarità statistica, mentre teologicamente appare un miracolo divino.

Se Leibniz, pur rifiutando la spiegazione miracolistica, respinge la soluzione statistica è perché per lui i complessi non hanno una realtà in sé, bensì essi "hanno tanta realtà o sostanzialità, quanta vera unità vi è in ciò che entra nella loro composizione". Perciò egli non vede nel complesso un'unità necessaria, diversa qualitativamente dalla casuale aggregazione di singole sostanze individuali: per lui l'unità necessaria è soltanto la sostanza individuale.

Per Leibniz "la nozione di una sostanza singola implica conseguenze incompatibili con un ente di aggregazione": infatti, se esistessero enti necessari di aggregazione, sorgerebbe poi il problema: qual è il vero scopo di Dio, questi ultimi, o le sostanze singole? La teologia ha imposto come vero scopo di Dio le sostanze singole, quindi ha concepito gli aggregati come riducibili a sostanze o elementi semplici (ossia considerati singolarmente), tra i quali ha creduto di poter trovare una connessione causale. Il riduzionismo teologico ha quindi imposto anche a Leibniz di capovolgere la realtà, attribuendo la necessità alle sostanze singole (che appartengono invece alla sfera del caso) e la contingenza (il caso) ai complessi (che appartengono invece alla sfera della necessità), considerandoli alla stregua di semplici aggregati.

Ma anche qui Leibniz va oltre il piatto riduzionismo, affermando che "i tratti dell'avvenire sono formati in precedenza, e le tracce del passato si conservano per sempre in ogni cosa, e la causa e l'effetto si corrispondono esattamente fin nei minimi particolari, sebbene ogni effetto dipenda da un'infinità di cause, e tutte le cause abbiano un'infinità di effetti". Paradossalmente, mentre egli crede di affermare l'assoluta causalità, in realtà, qui fornisce di essa una descrizione che è tale e quale il caso stesso: infatti, se ogni singola cosa è il risultato di un'infinità di cause-effetti, ciò equivale a dire che essa dipende dal caso.

Se, nell'esempio citato, le singole orchestre rappresentano le sostanze individuali, ciò non toglie che esse siano, a loro volta, degli aggregati (complessi), di cui i singoli suonatori rappresentano le sostanze individuali. Questa situazione è concepita come plura entia: se i corpi organici sono plura entia, "ne viene che le forme e anime, ben lungi dal rendere uno un ente, richiedono piuttosto più enti, affinché i corpi possano essere animati".

Non volendo (e non potendo) rinunciare alla priorità del singolo come sostanza individuale necessaria, e non potendo, del resto, evitare di riconoscere che anche il singolo individuo è un tutto composto di parti, Leibniz non ha altra via d'uscita che quella di immaginare la riduzione di tutti i composti a sostanze semplici spirituali: anime o menti, che chiamerà anche entelechie, e infine monadi. Quindi, le "bestie" e "le altre sostanze corporee" sono come l'uomo, che è "un ente dotato di una vera unità datagli dall'anima, nonostante che la massa del corpo sia divisa in organi, vasi, umori, spiriti, e che le parti siano piene, senza dubbio, di un'infinità d'altre sostanze corporee dotate delle loro proprie entelechie".

Ma che cosa sono le entelechie o monadi di Leibniz? Niente altro che gli atomi della sua concezione: egli, che nella giovinezza aveva respinto gli atomi materiali -come ha osservato, tra gli altri, anche Abbagnano-, in età matura finirà riduzionisticamente col concepire un atomismo immateriale.

Abbiamo già visto che, se la reale sostanza (la sostanza necessaria della scienza) fosse la singola cosa (il singolo individuo, o anche la singola monade), bisognerebbe che questa non fosse oggetto né di distruzione né di morte, ossia non fosse sottoposta al dispendio naturale. Perciò, per coerenza col dogma riduzionistico, Leibniz si vede costretto a negare la morte dei singoli organismi, e lo fa teorizzando la loro trasformazione. L'intuizione "evolutiva" è geniale, ma paradossale: in primo luogo, perché sorge da una necessità teologica (o, che è lo stesso, da un metodo scientifico ereditato dalla teologia), in secondo luogo, perché la trasformazione è attribuita a chi non può esserne l'oggetto: la sostanza individuale.

"E quando si riconosce che tutte le generazioni non sono che accrescimenti e sviluppi di un animale già formato, ci si persuaderà facilmente che la corruzione e la morte non sono altro che diminuzioni e involuzioni d'un animale che non cessa di sussistere e di restare vivo e organico. E' vero che non è altrettanto facile renderlo credibile per mezzo d'esperienze apposite, come si fa per le generazioni".

Leibniz è consapevole del fatto che la trasformazione "generazionale" è incredibile se viene attribuita agli animali singoli fino al punto di negarne la morte, ma ha bisogno di questa idea paradossale per evitare di ammettere il grande dispendio naturale. Possiamo confrontare la sua soluzione con quella di Darwin. Entrambe partono dalla difficoltà del rapporto caso-necessità. Ma, mentre Leibniz non chiude gli occhi di fronte a questo rapporto, accettando il ruolo del caso in opposizione alla necessità, e però compie l'errore di rappresentarsi questo rapporto capovolto (perché crede che la necessità riguardi la sostanza individuale, e di conseguenza deve attribuire la casualità ai complessi), Darwin, pur tenendo presente in un primo momento il caso, ne sarà spaventato e finirà col respingerlo, attribuendo la necessità sia alla selezione del singolo organismo sia all'evoluzione della specie, sorvolando sul dispendio dei nuovi nati a ogni generazione. E questo rappresenta l'errore tipico del riduzionismo meccanicistico della biologia che, per illudersi di poter risalire dalla presunta necessità dei singoli individui alla reale necessità delle specie, considera come un semplice presupposto da non indagare la dispendiosa eliminazione degli organismi.

Anche per questo motivo è interessante riprendere la critica di Leibniz al meccanicismo. Ne "Il nuovo sistema della natura" (1694), egli sostiene che i moderni hanno spinto troppo oltre la loro riforma, fino a confondere le cose naturali con quelle artificiali. Così facendo, la natura sembra meno ammirevole di quanto si credeva prima, "essendo essa qualcosa come una bottega di un operaio". Per Leibniz la differenza tra il modo di operare dell'uomo e quello della natura non è solo una differenza di grado, ma qualitativa, "del genere stesso". "Bisogna dunque sapere che le macchine della natura hanno un numero di organi veramente infinito, e sono così ben munite e difese da ogni accidente, che non è possibile distruggerle. Una macchina naturale resta una macchina anche nelle sue minime parti e, ciò che è più importante, resta sempre quella stessa macchina che è stata, perché le varie strutturazioni che riceve non fanno che trasformarla, in modo che ora essa si sviluppa, ora s'inviluppa e quasi si concentra, quando la si crede perduta".

La giusta critica al meccanicismo non approda però alla giusta soluzione, perché Leibniz continua a respingere la necessità dei complessi, attribuendola, invece, all'anima individuale, "che corrisponde a ciò che in noi si chiama io"; mentre la "massa materiale, comunque organizzata essa sia" "non può essere raffigurata che come un'armata o un gregge, o uno stagno pieno di pesci, o un orologio composto di molle e ruote". L'anima individuale risiede nel corpo "con una presenza immediata, che non potrebbe essere più intima, perché vi risiede come l'unità della somma di elementi che costituiscono la moltitudine".

L'unità (necessaria) della moltitudine dei singoli elementi non consiste, quindi, nel complesso, ma in qualcosa di estraneo ad esso, in un'anima interna. Insomma l'anima individuale è un'unità fittizia che sta al posto della reale unità del complesso necessario di molti elementi singolarmente casuali. Ma poi da dove viene fuori questa idea dell'anima come unità, se non da "ciò che in noi si chiama io"? Ovvero dalla coscienza individuale? E Leibniz è costretto ad attribuire questa anima o coscienza individuale anche agli animali. Nelle annotazioni sulla lettera di Foucher del 1696, scrive: "l'unità di un orologio, che voi immaginate, è per me ben diversa da quella dell'animale: questo può essere una sostanza dotata di vera unità, come ciò che si chiama io in noi, mentre un orologio non è altro che un insieme di parti collegate". (Continua)

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito

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