venerdì 20 gennaio 2012

II] Le ingegnose riflessioni di Leibniz sulla opposizione tra contingenza e necessità

(Continuazione) Si potrebbe dire di Leibniz che la sua mente teologica respinge le ingegnose idee della sua mente scientifica: così egli non può accettare teologicamente l'idea di abbandonare l'individuo al caso, perciò immagina come soluzione che Dio abbia la visione completa della nozione individuale di Alessandro, fino al punto di conoscere a priori se egli è morto di morte naturale o per avvelenamento, cosa che noi possiamo stabilire solo a posteriori.

In questo modo, Leibniz giunge a concepire una "connessione di tutte le cose" così assoluta da poter dire "che in ogni tempo si trovano nell'anima di Alessandro i resti di tutto ciò che gli è accaduto, e perfino le tracce di tutto ciò che avviene nell'Universo; sebbene Dio solo sia in grado di riconoscerle tutte". Il reale caso, relativo alle singole cose e ai singoli individui, diventa per Leibniz la fittizia necessità della connessione assoluta di tutte le cose e di tutti gli individui, di cui solo Dio è garante e perfetto conoscitore. Ma ogni falsa soluzione comporta il solito prezzo da pagare: il sorgere, da un'altra parte, di una contraddizione insolubile.

"Abbiamo detto -egli scrive- che la nozione di sostanza individuale racchiude, una volta per tutte, tutto ciò che le potrà accadere". La conseguenza di questa asserzione è che la necessità fatale appare eliminare la libertà contingente: "Sembra, con ciò, che la differenza tra verità contingenti e necessarie sia distrutta, che la libertà umana non abbia più alcuna latitudine, che una fatalità debba regnare su tutte le nostre azioni, così come sul resto degli avvenimenti del mondo".

Leibniz ha ben chiara la difficoltà prodotta dalla sua soluzione: attribuire a Dio la connessione assoluta di tutte le cose significa attribuire a Dio anche il caso. Il risultato è l'assoluta fatalità. Può sembrare paradossale, ma porre al posto del cieco caso l'imperscrutabile necessità divina comporta per gli uomini la medesima conseguenza: infatti se tutto ciò che è capitato ad Alessandro fosse un capriccio del caso o, al contrario, il risultato di una necessità divina predeterminata, la conseguenza sarebbe, in entrambi i casi, una necessità imprevedibile e perciò cieca. Cieca è la necessità per noi, sia essa una conseguenza del caso o della imperscrutabile volontà divina.

Si può dire, a questo punto, che, se si parte dal caso oggettivo (ovvero dagli infiniti eventi casuali, riferibili alle singole cose, ai singoli individui), e lo si personifica in un'entità cieca, si ottiene il Fato degli antichi greci; se, invece, lo si personifica in un'entità onniscente e creatrice, si ottiene la Provvidenza della religione cristiana. In sostanza, ciò che inerisce la sfera del fato e della provvidenza appartiene alla sfera della casualità.

Ciò che, però, mette in difficoltà la teologia è che la medesima materia del caso e della provvidenza, quando si abolisca il primo e si consideri soltanto la seconda, dà luogo a contraddizioni senza fine: non si contano le volte in cui Leibniz è dovuto tornare sulla questione di come conciliare la necessità divina con la contingenza e il libero arbitrio dell'uomo, cercando di liberarsi del pesante fardello della necessità fatale! E la soluzione che egli crede di trovare (che dovrà giustificare in ogni occasione con ogni sorta di stratagemma) non è altro che un espediente lessicale: "Tutti sono d'accordo che i futuri contingenti sono certi, dal momento che Dio li prevede, ma non si riconosce, per questo, che siano necessari".

Insomma, tutto ciò che accade, qualsiasi caso e accidente singolo, dev'essere opera di Dio e accadere come previsto e stabilito da Dio; ma, per evitare di dover dedurre da ciò la necessità fatale, Leibniz dice: non si tratta di necessità, soltanto di certezza! Insomma, teologicamente, egli sostiene che Dio prevede tutto: il contingente e il necessario; e precisa che per necessario si deve intendere una connessione, il cui contrario implica una contraddizione; mentre per contingente (cioè il necessario solo ex hipothesis, ossia per accidente) ciò, il cui contrario non implica contraddizione.

Quindi si spiega con un esempio, che vale la pena di seguire perché molto indicativo delle difficoltà della teologia: "Poiché Giulio Cesare diventerà dittatore perpetuo e padrone dello Stato, e rovescerà la libertà dei Romani, tale azione è compresa nella sua nozione: (...) si potrebbe dire che non è tale nozione e idea che fa commettere quell'azione, dato che essa gli compete unicamente perché Dio sa tutto. Altri, tuttavia, insisterà che la sua natura o forma corrisponde a tale nozione; e poiché Dio gli ha imposto questa parte, ormai gli è necessario recitarla". Invece, per Leibniz, "a questo punto occorre applicare la distinzione che ciò che accade conformente a quelle anticipazioni è certo, ma non è necessario; se qualcuno facesse il contrario, non farebbe nulla di impossibile in sé, sebbene sia impossibile (ex hipothesis) che ciò accada".

Questa soluzione, che sembra ridurre il peso della necessità e quindi lasciare più spazio alla possibilità, in realtà aggiunge all'impossibilità, dovuta alla necessità, l'impossibilità di ciò che, pur possibile, non è predeterminato e previsto dalla mente suprema. Nella sostanza non cambia nulla: essendo impossibile di fatto evitare di recitare la parte imposta da Dio, sia per necessità che ex hipothesi. Così, riguardo alla decisione di Cesare di passare il Rubicone, e alla vittoria di Farsalo, Leibniz dice che "era conforme a ragione, e pertanto certo, che ciò accadesse: ma non che ciò fosse necessario in se stesso, né che il contrario implicasse contraddizione".

Di fatto un risultato storico, singolo, contingente, come la vittoria di Farsalo, rappresenta un risultato imprevedibile, per circostanze contingenti che possiamo considerare casuali; però, come risultato, determina conseguenze che possiamo considerare ciecamente necessarie. Per la teologia, invece, non si può evitare di realizzare ciò che Dio ha previsto in anticipo, persino negli eventi contingenti: la necessità divina è quindi oggettivamente fatale. Ma Leibniz, pur accettando il principio teologico, ne respinge la fatalità: perciò pretende che la predeterminazione divina si avvalga di una tendenza spontanea verso il meglio, verso la perfezione, così da garantire la certezza del risultato voluto e previsto da Dio.

Di conseguenza, riguardo alla natura umana, Dio ha decretato "che l'uomo farà sempre, (sebbene liberamente), ciò che apparirà meglio. Ora, ogni verità fondata su decreti di questa specie è contingente, nonostante sia certa: tali decreti, infatti, non mutano punto la possibilità delle cose, e, come ho già detto, sebbene Dio scelga sempre il meglio con certezza, ciò non toglie che quanto è meno perfetto sia e rimanga possibile in sé, anche se non avverrà mai: perché non la sua impossibilità, ma la sua imperfezione fa sì che sia respinto. Ma non v'è nulla di necessario, il cui opposto sia possibile".

In questo modo Leibniz nega l'impossibilità in relazione al contingente, cui concede una molteplice possibilità; se poi si realizza quell'unica possibilità stabilita da Dio, ciò avviene sia perché Dio prevede il possibile più perfetto, sia perché le cose della natura e l'uomo tendono spontaneamente nella direzione del meglio, ossia del più perfetto. In definitiva, egli esclude che Dio stabilisca una necessità assoluta per gli eventi singoli, contingenti, il cui opposto sia impossibile: Dio stabilisce soltanto la certezza dei risultati contingenti, grazie al decreto della tendenza al meglio, al più perfetto.

Questa idea di Leibniz, considerata nel senso della spontaneità del contingente, rappresenta senz'altro una intuizione geniale. Ma, riconducendo in questo modo il contingente, il caso, sotto l'ala divina, imponendogli di tendere al meglio, egli cade in errore (nello stesso errore in cui cadrà Darwin), perché non è il contingente casuale a tendere al meglio, dirigendosi, anzi, in tutte le direzioni possibili: è il gran numero di casi singoli che determina ogni volta, con gran dispendio, quella combinazione contingente ma rara, ossia statisticamente eccezionale, che rappresenta, in un determinato momento e luogo, il meglio, la "perfezione". E, ancora una volta, si può osservare la fondamentale differenza esistente tra il contingente casuale e il contingente predeterminato da Dio: il primo è dispendioso, il secondo economico.

Se valutiamo la soluzione di Leibniz dal punto di vista teologico, essa non risolve la difficoltà, perché se il contingente, per decreto divino, tende alla perfezione, esso vi tende necessariamente per una tendenza fatale, realizzando ogni volta il possibile più perfetto. La difficoltà è messa in evidenza da Arnauld in una lettera del 1686: "Vi dirò, perciò, semplicemente, le difficoltà che ancora mi suscita questa proposizione: "La nozione individuale di ogni persona racchiude una volta per tutte quanto ad essa accadrà"."  Egli crede di poter dedurre da ciò "che Dio fu libero di creare o non creare Adamo, ma che, supposto che abbia voluto crearlo, tutto ciò che in seguito è avvenuto al genere umano ha dovuto e deve, avvenire per una necessità fatale". Ma ammettere una simile conclusione, avrebbe significato, all'epoca, ammettere che di tutte le azioni umane, anche di quelle malvagie, non potesse essere altri che Dio il responsabile.

Leibniz ribatte alla solita maniera, e con sottili distinguo di scarso interesse. Anche l'ipotesi delle cause occasionali (ossia del, caso che produce il risultato voluto) non è soddisfacente, egli afferma, perché rappresenterebbe l'introduzione di una sorta di miracolo continuato. E' invece nella lettera successiva ad Arnauld che egli affronta l'argomento fondamentale: la distinzione tra la sostanza individuale e l'aggregato, o complesso, o totalità: "Tra una sostanza e un'entità siffatta vi è altrettanta differenza quanto tra un uomo e una comunità, quale un popolo, un esercito, una società e un collegio: i quali sono enti morali, in cui vi è qualcosa di immaginario che dipende dall'invenzione della nostra mente"

Leibniz attribuisce, dunque, realtà soltanto alla sostanza individuale, ossia alla singola sostanza, mentre considera convenzioni della nostra mente gli "aggregati", i complessi, confermando ancora una volta la nostra ipotesi che l'importanza che la scienza ha sempre attribuito alle singole cose è un portato del riduzionismo teologico. (Continua)

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito

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