Contemporaneo di Cartesio, ma anche di Cromwell, l'empirista Thomas Hobbes (1588-1679) non fa che riflettere, nella sua concezione meccanicistica, 1) da un lato la vecchia impostazione aristotelica, anche se rovesciata, 2) dall'altro la sovrastruttura sociale e politica della sua epoca.
1) Riguardo al primo punto, mentre Aristotele assimilò la natura ai meccanismi prodotti dall'uomo, Hobbes ritiene che l'uomo imiti il meccanicismo della natura. In sostanza, egli attribuisce all'uomo la peculiarità di imitare il modo di operare della natura, che a sua volta è stato, fin da Aristotele, concepito a imitazione del modo di operare dell'uomo. Il brano che segue, tratto dalla sua opera fondamentale, il Leviatano, è di una chiarezza estrema:
"La natura, l'arte con cui Dio ha fatto il mondo e lo governa, è imitata dall'arte dell'uomo, come in molte altre cose, anche in questo: che si può fare un animale artificiale. Se infatti la vita non è altro che un moto delle membra, il cui inizio è in qualche parte principale interna, perché non potremmo dire che tutti gli automata (macchine che si muovono da sé per mezzo di molle e di ruote, come un orologio) hanno vita artificiale?" E così anche il corpo umano è considerato come un orologio, composto di parti, con il cuore simile a una molla, i nervi simili alle corde, le articolazioni simili alle ruote, ecc. E lo Stato, il grande leviatano, che cosa è se non un uomo artificiale di gigantesche dimensioni?
2) Riguardo al secondo punto, se si può osservare che la descrizione di Hobbes dello stato di natura e delle leggi naturali è pessimista, ciò deriva principalmente dal fatto che nel "descrivere" la natura, egli riflette le relazioni sociali e politiche del suo tempo: basta vedere quanta importanza attribuisca alla opposizione onore-disonore, tipica della società del Seicento. A questo proposito, Hobbes parte dal presupposto che ciò che gli uomini hanno di mira è l'apparenza più che l'essenza: l'apparenza può anche manifestarsi nella forma della fortuna, la quale è segno apparente del favore di Dio, e quindi appare come un onore. Allo stesso modo la sfortuna e le perdite sono apparenze, ma disonorevoli, perché rappresentano un segno di disgrazia. Poiché è "onorevole qualsiasi possesso o azione o qualità, che costituisca un argomento o segno di potere", ecco che qualità come ricchezza, reputazione, bellezza, eloquenza, ecc. rappresentano vari modi di manifestazione del potere stesso.
Poiché, inoltre, queste qualità, che costituiscono segno di potere, devono apparire immeditamente a tutti e non solo a quelli che le possiedono, ecco che la conoscenza umana appare di scarso potere. Scrive Hobbes: "le scienze sono poco potere, perché non conferiscono superiorità, e quindi non sono riconosciute in qualsiasi uomo. Anzi, in genere, non sono riconosciute che in pochi uomini, e riguardo a poche cose; perché la natura della scienza è tale, che nessuno può riconoscerla in un altro, senza possederla già in una buona misura". (Detto tra parentesi, questa è una riflessione molto acuta, che trova conferma in ogni epoca)
Si potrebbe dire: l'apparenza del potere è il potere dell'apparenza, potere però non fine a se stesso, ma finalizzato al valore economico. Dice, infatti, Hobbes che il valore di un uomo è il suo prezzo, "cioè quanto si darebbe per l'uso del suo potere"; e, come esempio, riporta quello di un abile comandante dell'epoca che era di gran prezzo in periodo di guerra, ma non valeva niente in periodo di pace.
Il Leviatano è noto soprattutto come teorizzazione del bellum omnium contra omnes, ma al di là di questo, è ancora più importante per la teoria della conoscenza rilevare, nella principale opera di Hobbes, il nesso storico che l'autore compie tra il concetto deterministico di causa e il concetto di Dio come causa prima: "La curiosità, o amore della conoscenza delle cause, volge l'uomo dalla considerazione dell'effetto alla ricerca della causa, e poi della causa di quella causa, finché necessariamente si giunge al pensiero che vi è una causa non causata, ma eterna, che gli uomini chiamano Dio". Come si vede, il concetto di causa ha fondamento soltanto se, alla fine dell'infinita serie di cause ed effetti, si ammetta l'esistenza di una causa prima, eterna che le sostenga tutte.
"Così che -egli continua- è impossibile condurre alcuna ricerca approfondita sulle cause naturali, senza con ciò essere inclinati a credere che vi è un Dio eterno; sebbene gli uomini non possano avere nella mente alcuna idea corrispondente alla sua natura". Anticipando Spinoza, che negherà la validità delle concezioni teologiche sulla natura di Dio, Hobbes dice che, come un cieco, il quale si scalda al fuoco, concependolo come causa del calore, pur non potendo avere un'immagine o un'idea di esso, "allo stesso modo si può concepire, a partire dalle cose visibili di questo mondo e dal loro ammirevole ordine, che esiste una causa di esse, che gli uomini chiamano Dio, senza con ciò avere nella mente una sua idea o immagine".
Ma se nessuno può immaginare o concepire Dio, chi ne parla, fantastica: "In questo modo -egli scrive- è accaduto che gli uomini abbiano creato, secondo l'inesauribile varietà della loro fantasia, innumerevoli specie di dèi; e questa paura delle cose invisibili è il seme naturale di quella che ognuno chiama, riguardo a sé, religione, e, riguardo a chi adora o teme quel potere in modo diverso, superstizione".*
Hobbes rifiuta le fantasie teologiche, quindi ridimensiona la religione contrastandola nel suo principale punto debole; però, mantenendo il principio deterministico fondato sulla causa prima, non si rende conto che il punto debole delle più diverse religioni è anche il punto debole del determinismo: infatti, se non si può né immaginare né concepire dio senza fantasticare, come si può esser certi che la causalità rappresenti la reale e oggettiva connessione di tutte le cose della natura, solo perché a garantirla c'è un'entità misteriosa che nessuno può immaginare né concepire? Non è perciò un caso che Hume abbia rimescolato le carte di questa contraddizione.
Tornando alla guerra di tutti contro tutti, su un tale presupposto che vede permanere anche nello stato moderno, nonostante in questo prevalgano i patti e le obbligazioni, l'autore del Leviatano fonda i suoi princìpi di diritto naturale, i quali non sono altro che legittimazioni della difesa personale. Bisogna tener presente che la sua principale opera esce nel periodo della presa del potere da parte di Cromwell: il libro è pubblicato, infatti, nel 1651, e Cromwell, già molto potente nel 1649, diventerà Lord Protector nel 1653.
Hobbes dice che esso "fu scritto in aiuto di quei molti fedeli servitori di sua maestà, che avevano preso le sue parti in guerra (...) e, non avendo più mezzi di protezione, e spesso senza sussistenza, erano costretti a venire a patti e a promettere obbedienza per salvare la loro vita e le loro fortune; e ho mostrato in quel libro che essi lo potevano fare legittimamente, e che quindi era illegittimo che prendessero le armi contro i vincitori".**
Lo scopo principale del libro era, dunque, quello di favorire la conservazione del potere di Cromwell, dichiarando legittima difesa della propria persona e dei propri beni il passare dei realisti nel campo avversario, e illegittimo continuare a combattere il nuovo potere. Insomma, si trattava, da un lato di salvare la faccia, l'onore, dei transfughi, e dall'altro di garantire Cromwell da rivolte filomonarchiche.
Ma, dichiarando legittimo arrendersi e illegittimo ribellarsi con le armi, Hobbes stabiliva una alternativa necessaria, togliendo alla scelta personale ogni elemento di casualità, di accidentalità. In questo modo egli applicava alla politica il suo determinismo meccanicistico. Potremmo dire che, se tutto è apparenza, anche l'onore, l'obbedienza, la scelta del protettore sono apparenze: "Quindi una persona è lo stesso che un attore,*** sia sulla scena che nella relazioni comuni; e personificare è agire o rappresentare se stessi o un altro".
La soluzione che Hobbes escogita per un problema storico concreto rappresenta un'applicazione pratica dell'idea di libertà non contradditoria con la necessità. "Libertà e necessità non si contraddicono: come nell'acqua, che ha non solo libertà, ma una necessità di discendere per un condotto. Allo stesso modo le azioni volontarie degli uomini, in quanto derivano dalla loro volontà, derivano dalla libertà; e tuttavia, in quanto ogni atto della volontà umana, e ogni desiderio e inclinazione, deriva da una causa, e questa da un'altra causa, in una catena ininterrotta il cui primo anello è nelle mani di Dio, causa prima, esse derivano dalla necessità".
Come si vede, è il determinismo assoluto, garantito dalla causa prima, che giustifica una libertà umana derivata dalla necessità, e quindi non in contraddizione con essa. Diversamente da Leibniz e altri che troveranno molte difficoltà sulla contraddizione tra libero arbitrio e necessità fatale, Hobbes se la cava facilmente: "Così chi potesse vedere la connessione di queste cause, avrebbe chiara la necessità di tutte le azioni volontarie degli uomini: e perciò Dio, che vede e dispone tutte le cose, vede anche la libertà dell'uomo che, nel fare quello che vuole, si accompagna alla necessità di fare quello che vuole Dio, nulla più e nulla meno".
Ma se si toglie la contraddizione tra la libertà dell'uomo e la necessità derivata da Dio, ne salta fuori un'altra di contraddizioni che ai teologi è sempre apparsa molto pericolosa: Dio sembra essere il responsabile di tutte le azioni umane, anche di quelle malvagie. Hobbes non può evitare questa conseguenza, anche se cerca di ridurne la portata: "Sebbene gli uomini possano fare molte cose che Dio non comanda, e di cui quindi non è autore, pure essi non possono avere alcuna passione o appetito per qualcosa, senza che la volontà di Dio ne sia la causa".
In definitiva, negare ogni contraddizione tra libertà e necessità è possibile soltanto se si ritiene che ogni singolo uomo agisca in modo tale da non eludere il princìpio di causalità, altrimenti o si nega il libero arbitrio a favore della necessità delle sequenze causali riconducibili sempre alla causa prima divina, ossia a favore della necessità fatale, oppure si immagina, come ha fatto Leibniz, che ogni singolo uomo segua spontaneamente (ossia liberamente!) la necessità divina. Ma anche quest'ultima soluzione è fondata su un equivoco: infatti dire spontaneità significa dire casualità, e il caso non coincide con la libertà. La connessione tra caso e libertà non è stata altro che la protesta di Epicuro contro il determinismo di Democrito.
Ma se Hobbes non giunge ad ingolfarsi in queste contraddizioni è solo perché, inaugurando la tipica superficialità del pensiero anglosassone, non vuol vedere "nulla di più e nulla di meno" che una libertà umana immediatamente necessità. Del resto questa idea superficiale è del tutto coerente con la concezione deterministica-meccanicistica dell'universo: se l'universo è come un orologio, dove ogni cosa funziona come parte del meccanismo e ogni movimento singolo è già predeterminato, ogni cosa dovrà, non solo liberamente ma anche necessariamente, seguire il suo corso, come l'acqua segue il suo condotto. Questo è l'errore di fondo!
* Se la teologia cristiana aveva preso come modello il sistema di Aristotele, fondato sulla causa prima divina, molte erano, allora, le teologie, ossia i diversi modi di concepire le qualità divine. Basti considerare che nel '600 l'Europa era divisa teologicamente tra l'Italia cattolica, la Germania luterana, l'Inghilterra anglicana e puritana, l'Olanda calvinista e la Francia ugonotta e giansenista (da S.F. Mason "Storia delle scienze della natura", 1962).
** Questa giustificazione lo riguardava di persona: infatti, come scrive M. Mori in "Storia della filosofia moderna", 2005: "Hobbes si schierò decisamente a favore del partito realista e della Chiesa anglicana. Ciò è stato in parte spiegato con il suo carattere timoroso, pieno di orrore per ogni sedizione e disordine civile, in parte con il fatto che egli visse lungamente al servizio e sotto la protezione dei potenti". Del resto, il futuro re Carlo II "lo proteggerà nell'ultima parte della sua lunga vita".
*** Oggi, questa impostazione è stata ripescata dai cosidetti postmoderni che vedono dappertutto nuovi "attori" nel vasto palcoscenico della società "globale".
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Tratto da "Il caso e la necessità - l'enigma svelato Volume Primo Teoria della conoscenza (1993-2002) Inedito
1) Riguardo al primo punto, mentre Aristotele assimilò la natura ai meccanismi prodotti dall'uomo, Hobbes ritiene che l'uomo imiti il meccanicismo della natura. In sostanza, egli attribuisce all'uomo la peculiarità di imitare il modo di operare della natura, che a sua volta è stato, fin da Aristotele, concepito a imitazione del modo di operare dell'uomo. Il brano che segue, tratto dalla sua opera fondamentale, il Leviatano, è di una chiarezza estrema:
"La natura, l'arte con cui Dio ha fatto il mondo e lo governa, è imitata dall'arte dell'uomo, come in molte altre cose, anche in questo: che si può fare un animale artificiale. Se infatti la vita non è altro che un moto delle membra, il cui inizio è in qualche parte principale interna, perché non potremmo dire che tutti gli automata (macchine che si muovono da sé per mezzo di molle e di ruote, come un orologio) hanno vita artificiale?" E così anche il corpo umano è considerato come un orologio, composto di parti, con il cuore simile a una molla, i nervi simili alle corde, le articolazioni simili alle ruote, ecc. E lo Stato, il grande leviatano, che cosa è se non un uomo artificiale di gigantesche dimensioni?
2) Riguardo al secondo punto, se si può osservare che la descrizione di Hobbes dello stato di natura e delle leggi naturali è pessimista, ciò deriva principalmente dal fatto che nel "descrivere" la natura, egli riflette le relazioni sociali e politiche del suo tempo: basta vedere quanta importanza attribuisca alla opposizione onore-disonore, tipica della società del Seicento. A questo proposito, Hobbes parte dal presupposto che ciò che gli uomini hanno di mira è l'apparenza più che l'essenza: l'apparenza può anche manifestarsi nella forma della fortuna, la quale è segno apparente del favore di Dio, e quindi appare come un onore. Allo stesso modo la sfortuna e le perdite sono apparenze, ma disonorevoli, perché rappresentano un segno di disgrazia. Poiché è "onorevole qualsiasi possesso o azione o qualità, che costituisca un argomento o segno di potere", ecco che qualità come ricchezza, reputazione, bellezza, eloquenza, ecc. rappresentano vari modi di manifestazione del potere stesso.
Poiché, inoltre, queste qualità, che costituiscono segno di potere, devono apparire immeditamente a tutti e non solo a quelli che le possiedono, ecco che la conoscenza umana appare di scarso potere. Scrive Hobbes: "le scienze sono poco potere, perché non conferiscono superiorità, e quindi non sono riconosciute in qualsiasi uomo. Anzi, in genere, non sono riconosciute che in pochi uomini, e riguardo a poche cose; perché la natura della scienza è tale, che nessuno può riconoscerla in un altro, senza possederla già in una buona misura". (Detto tra parentesi, questa è una riflessione molto acuta, che trova conferma in ogni epoca)
Si potrebbe dire: l'apparenza del potere è il potere dell'apparenza, potere però non fine a se stesso, ma finalizzato al valore economico. Dice, infatti, Hobbes che il valore di un uomo è il suo prezzo, "cioè quanto si darebbe per l'uso del suo potere"; e, come esempio, riporta quello di un abile comandante dell'epoca che era di gran prezzo in periodo di guerra, ma non valeva niente in periodo di pace.
Il Leviatano è noto soprattutto come teorizzazione del bellum omnium contra omnes, ma al di là di questo, è ancora più importante per la teoria della conoscenza rilevare, nella principale opera di Hobbes, il nesso storico che l'autore compie tra il concetto deterministico di causa e il concetto di Dio come causa prima: "La curiosità, o amore della conoscenza delle cause, volge l'uomo dalla considerazione dell'effetto alla ricerca della causa, e poi della causa di quella causa, finché necessariamente si giunge al pensiero che vi è una causa non causata, ma eterna, che gli uomini chiamano Dio". Come si vede, il concetto di causa ha fondamento soltanto se, alla fine dell'infinita serie di cause ed effetti, si ammetta l'esistenza di una causa prima, eterna che le sostenga tutte.
"Così che -egli continua- è impossibile condurre alcuna ricerca approfondita sulle cause naturali, senza con ciò essere inclinati a credere che vi è un Dio eterno; sebbene gli uomini non possano avere nella mente alcuna idea corrispondente alla sua natura". Anticipando Spinoza, che negherà la validità delle concezioni teologiche sulla natura di Dio, Hobbes dice che, come un cieco, il quale si scalda al fuoco, concependolo come causa del calore, pur non potendo avere un'immagine o un'idea di esso, "allo stesso modo si può concepire, a partire dalle cose visibili di questo mondo e dal loro ammirevole ordine, che esiste una causa di esse, che gli uomini chiamano Dio, senza con ciò avere nella mente una sua idea o immagine".
Ma se nessuno può immaginare o concepire Dio, chi ne parla, fantastica: "In questo modo -egli scrive- è accaduto che gli uomini abbiano creato, secondo l'inesauribile varietà della loro fantasia, innumerevoli specie di dèi; e questa paura delle cose invisibili è il seme naturale di quella che ognuno chiama, riguardo a sé, religione, e, riguardo a chi adora o teme quel potere in modo diverso, superstizione".*
Hobbes rifiuta le fantasie teologiche, quindi ridimensiona la religione contrastandola nel suo principale punto debole; però, mantenendo il principio deterministico fondato sulla causa prima, non si rende conto che il punto debole delle più diverse religioni è anche il punto debole del determinismo: infatti, se non si può né immaginare né concepire dio senza fantasticare, come si può esser certi che la causalità rappresenti la reale e oggettiva connessione di tutte le cose della natura, solo perché a garantirla c'è un'entità misteriosa che nessuno può immaginare né concepire? Non è perciò un caso che Hume abbia rimescolato le carte di questa contraddizione.
Tornando alla guerra di tutti contro tutti, su un tale presupposto che vede permanere anche nello stato moderno, nonostante in questo prevalgano i patti e le obbligazioni, l'autore del Leviatano fonda i suoi princìpi di diritto naturale, i quali non sono altro che legittimazioni della difesa personale. Bisogna tener presente che la sua principale opera esce nel periodo della presa del potere da parte di Cromwell: il libro è pubblicato, infatti, nel 1651, e Cromwell, già molto potente nel 1649, diventerà Lord Protector nel 1653.
Hobbes dice che esso "fu scritto in aiuto di quei molti fedeli servitori di sua maestà, che avevano preso le sue parti in guerra (...) e, non avendo più mezzi di protezione, e spesso senza sussistenza, erano costretti a venire a patti e a promettere obbedienza per salvare la loro vita e le loro fortune; e ho mostrato in quel libro che essi lo potevano fare legittimamente, e che quindi era illegittimo che prendessero le armi contro i vincitori".**
Lo scopo principale del libro era, dunque, quello di favorire la conservazione del potere di Cromwell, dichiarando legittima difesa della propria persona e dei propri beni il passare dei realisti nel campo avversario, e illegittimo continuare a combattere il nuovo potere. Insomma, si trattava, da un lato di salvare la faccia, l'onore, dei transfughi, e dall'altro di garantire Cromwell da rivolte filomonarchiche.
Ma, dichiarando legittimo arrendersi e illegittimo ribellarsi con le armi, Hobbes stabiliva una alternativa necessaria, togliendo alla scelta personale ogni elemento di casualità, di accidentalità. In questo modo egli applicava alla politica il suo determinismo meccanicistico. Potremmo dire che, se tutto è apparenza, anche l'onore, l'obbedienza, la scelta del protettore sono apparenze: "Quindi una persona è lo stesso che un attore,*** sia sulla scena che nella relazioni comuni; e personificare è agire o rappresentare se stessi o un altro".
La soluzione che Hobbes escogita per un problema storico concreto rappresenta un'applicazione pratica dell'idea di libertà non contradditoria con la necessità. "Libertà e necessità non si contraddicono: come nell'acqua, che ha non solo libertà, ma una necessità di discendere per un condotto. Allo stesso modo le azioni volontarie degli uomini, in quanto derivano dalla loro volontà, derivano dalla libertà; e tuttavia, in quanto ogni atto della volontà umana, e ogni desiderio e inclinazione, deriva da una causa, e questa da un'altra causa, in una catena ininterrotta il cui primo anello è nelle mani di Dio, causa prima, esse derivano dalla necessità".
Come si vede, è il determinismo assoluto, garantito dalla causa prima, che giustifica una libertà umana derivata dalla necessità, e quindi non in contraddizione con essa. Diversamente da Leibniz e altri che troveranno molte difficoltà sulla contraddizione tra libero arbitrio e necessità fatale, Hobbes se la cava facilmente: "Così chi potesse vedere la connessione di queste cause, avrebbe chiara la necessità di tutte le azioni volontarie degli uomini: e perciò Dio, che vede e dispone tutte le cose, vede anche la libertà dell'uomo che, nel fare quello che vuole, si accompagna alla necessità di fare quello che vuole Dio, nulla più e nulla meno".
Ma se si toglie la contraddizione tra la libertà dell'uomo e la necessità derivata da Dio, ne salta fuori un'altra di contraddizioni che ai teologi è sempre apparsa molto pericolosa: Dio sembra essere il responsabile di tutte le azioni umane, anche di quelle malvagie. Hobbes non può evitare questa conseguenza, anche se cerca di ridurne la portata: "Sebbene gli uomini possano fare molte cose che Dio non comanda, e di cui quindi non è autore, pure essi non possono avere alcuna passione o appetito per qualcosa, senza che la volontà di Dio ne sia la causa".
In definitiva, negare ogni contraddizione tra libertà e necessità è possibile soltanto se si ritiene che ogni singolo uomo agisca in modo tale da non eludere il princìpio di causalità, altrimenti o si nega il libero arbitrio a favore della necessità delle sequenze causali riconducibili sempre alla causa prima divina, ossia a favore della necessità fatale, oppure si immagina, come ha fatto Leibniz, che ogni singolo uomo segua spontaneamente (ossia liberamente!) la necessità divina. Ma anche quest'ultima soluzione è fondata su un equivoco: infatti dire spontaneità significa dire casualità, e il caso non coincide con la libertà. La connessione tra caso e libertà non è stata altro che la protesta di Epicuro contro il determinismo di Democrito.
Ma se Hobbes non giunge ad ingolfarsi in queste contraddizioni è solo perché, inaugurando la tipica superficialità del pensiero anglosassone, non vuol vedere "nulla di più e nulla di meno" che una libertà umana immediatamente necessità. Del resto questa idea superficiale è del tutto coerente con la concezione deterministica-meccanicistica dell'universo: se l'universo è come un orologio, dove ogni cosa funziona come parte del meccanismo e ogni movimento singolo è già predeterminato, ogni cosa dovrà, non solo liberamente ma anche necessariamente, seguire il suo corso, come l'acqua segue il suo condotto. Questo è l'errore di fondo!
* Se la teologia cristiana aveva preso come modello il sistema di Aristotele, fondato sulla causa prima divina, molte erano, allora, le teologie, ossia i diversi modi di concepire le qualità divine. Basti considerare che nel '600 l'Europa era divisa teologicamente tra l'Italia cattolica, la Germania luterana, l'Inghilterra anglicana e puritana, l'Olanda calvinista e la Francia ugonotta e giansenista (da S.F. Mason "Storia delle scienze della natura", 1962).
** Questa giustificazione lo riguardava di persona: infatti, come scrive M. Mori in "Storia della filosofia moderna", 2005: "Hobbes si schierò decisamente a favore del partito realista e della Chiesa anglicana. Ciò è stato in parte spiegato con il suo carattere timoroso, pieno di orrore per ogni sedizione e disordine civile, in parte con il fatto che egli visse lungamente al servizio e sotto la protezione dei potenti". Del resto, il futuro re Carlo II "lo proteggerà nell'ultima parte della sua lunga vita".
*** Oggi, questa impostazione è stata ripescata dai cosidetti postmoderni che vedono dappertutto nuovi "attori" nel vasto palcoscenico della società "globale".
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Tratto da "Il caso e la necessità - l'enigma svelato Volume Primo Teoria della conoscenza (1993-2002) Inedito