venerdì 27 gennaio 2012

I] La provvidenza divina di Vico come rifiuto della necessità fatale e del caso

Appena ricevuta la cattedra di retorica nel 1698, Giambattista Vico (1668-1744) scrive un saggio dal titolo "De nostri temporis studiorem rationem", con l'intento di creare una nuova epistemologia in netta polemica col moderno pensiero scientifico cartesiano. Se prendiamo in considerazione questo scritto di Vico, prima della sua opera maggiore: "La scienza nuova" (1730), è perché vi troviamo alcune motivazioni che spiegano la sua soluzione fondata sulla divina provvidenza, nonostante in un primo momento egli si sia limitato a negare sia la necessità fatale che il caso, senza per altro dar troppo peso alla provvidenza.

Nel sostenere l'importanza del senso comume per l'educazione dei giovani, Vico scrive: "Il senso comune si genera dal verosimile come la scienza si genera dal vero e l'errore dal falso. E in effetti il verosimile è come intermedio tra il vero e il falso, giacché, essendo per lo più vero, assai di rado è falso". E ricorda che "Platone inclinava per il verosimile". Egli dice anche che "il fine di tutti gli studi che oggi si osserva, si celebra, si onora da parte di tutti" è "la verità"; ma poi ritiene che "tutto ciò che l'uomo può conoscere, come anche l'uomo stesso, è finito e imperfetto".

Fin da queste considerazioni si può notare la contraddizione tra la ricerca della verità e l'imperfezione della conoscenza umana, la quale "inclina" verso il verosimile: il senso comune, posto in mezzo tra la scienza del vero e l'errore generato dal falso. Vico cita anche Carneade che "invece accettava i contrari, e un giorno sosteneva che la giustizia c'è e un altro no, con pari peso di prove e con incredibile forza di argomentazioni. Tutto ciò perché il vero è uno, i verosimili molti, i falsi infiniti". Potremmo dire che in questa conclusione c'è un'intuizione inespressa, che così possiamo delineare: la verità è unica, nel senso che la necessità è unica; i verosimili sono molti, come anche le possibilità; quindi la realtà necessaria è unica, mentre quella solo possibile è molteplice, ossia contingente; infine i "falsi" sono infiniti come i casi: la casualità si manifesta in infiniti modi.

Abbiamo già osservato che, a cominciare dal Seicento, la verità certa, la necessità assoluta era riconosciuta solo alla geometria, e che questa scienza era presa a modello da tutte le altre, e soprattutto dalla fisica, nella illusione di stabilire in esse verità altrettanto certe e necessarie. Vico critica questa illusione del pensiero scientifico moderno, in particolar modo negando, nella applicazione della geometria alla fisica, che il geometrico coincida col fisico. "Perciò -egli scrive- codeste cose che in fisica si presentano per vere in forza del metodo geometrico, non sono che verosimili, e dalla geometria ricevono il metodo, non la dimostrazione: dimostriamo le cose geometriche perché le facciamo, se potessimo dimostrare le cose fisiche noi le faremmo. Nel solo Dio ottimo massimo sono vere le forme delle cose, perché su quelle è modellata la natura".

Se si accetta (e tutti, allora, accettavano) che la natura è opera di Dio, si deve ammettere che solo Dio può conoscere l'opera sua. Allo stesso modo, la verità della geometria consiste solo nel fatto che l'uomo ha creato la geometria. La geometria può solo dimostrare cose geometriche create dall'uomo. Ma la natura resta fuori dall'opera dell'uomo (sia che la si intenda opera divina, sia che la si consideri opera della cieca evoluzione della materia), perciò ritenere le forme naturali alla stregua delle forme geometriche è un errore di metodo. Questo non ha capito Cartesio, ma neppure Einstein. Questo non riescono, ancora, a capire i fisici sulla soglia del terzo millennio.

Vico è forse l'unico che abbia sottolinato che la perfezione della geometria (e di tutte le matematiche) consiste solo nel fatto che noi le produciamo, come produciamo le nostre macchine. Nella geometria, come nel meccanismo, la necessità e la certezza della connessione di causa ed effetto sono assicurate da noi, che nel costruirle non lasciamo nulla al caso. Ma le cose della fisica non sono prodotte da noi, perciò quando ne diamo dimostrazioni o spiegazioni geometriche, matematiche, noi non spieghiamo niente, e continuiamo a non sapere come si realizzano, come si sviluppano e come finiscono.

Sostenendo questa tesi, Vico ha messo il dito nelle piaghe della scienza moderna, quindi non stupisce che egli sia stato pressoché ignorato come pensatore antiquato. Ma, se è vero che, come vedremo, la sua soluzione della provvidenza divina è un ritorno al medioevo, è anche vero che le sue argomentazioni sul pensiero scientifico avrebbero potuto mettere in guardia la teoria della conoscenza dal determinismo meccanicistico.

Che ciò non sia avvenuto per sottovalutazione, lo si può appurare prendendo ad esempio due autori italiani. Il primo, Paolo Rossi, nel suo saggio "Sulle immagini della scienza" (1977), prende in considerazione questa idea di Vico, citando le sue "celebri pagine", senza però valutarle come una seria critica alla scienza moderna. L'autore cita anche Marsenne che sembra pensarla come Vico quando scrive: "Appartenendo l'oggetto della fisica alle cose create da Dio, non c'è da stupirsi se non possiamo trovare le loro vere ragioni e il modo in cui queste agiscono e patiscono. Conosciamo infatti le vere ragioni solo di quelle cose che possiamo costruire con le mani e con l'intelletto".

Se le cose stavano così, o meglio, se venivano considerate in questi termini da autori come Marsenne e Vico, come non vedere un limite oggettivo alle pretese del meccanicismo deterministico? Se Rossi non lo vede, o lo accenna solo di sfuggita, è perché, partendo dal medesimo presupposto, ad esempio di Marsenne, i meccanicisti erano pervenuti all'idea che, se l'uomo poteva conoscere realmente solo i suoi prodotti artificiali: le macchine, avrebbe potuto conoscere anche il mondo della natura interpretandolo come una macchina. E questa fu l'impostazione di Gassendi.

Rossi, citando prima Gassendi, per mostrare il fondamento teorico del meccanicismo, e poi Marsenne e Vico, non vede che, mentre per Marsenne e soprattutto Vico la fisica meccanicistica, che indaga la natura creata da Dio, non permette di conoscerla, per Gassendi invece permette questa conoscenza, in quanto la natura è immaginata come un prodotto artificiale: come una macchina. Ecco, dunque, apparire l'utile finzione, mediante la quale ci si illuse di conoscere il mondo reale, la natura, mentre in realtà lo si sostituiva con una rappresentazione convenzionale e fittizia.

Il secondo autore che prendiamo in considerazione, Massimo Mori, nella sua "Storia della filosofia moderna" (2005), sostiene che Hobbes anticipa "Il principio per cui si conosce soltanto ciò che si fa, [principio che] troverà una ripresa e uno sviluppo in Giovanbattista Vico". Mori, però, non si rende conto che, mentre per Vico si tratta di un principio che nega la conoscenza della fisica mediante la geometria, per Hobbes, invece, quantunque l'uomo possa conoscere a priori solo ciò che ha creato (come la matematica), può, però, conoscere a posteriori, mediante la connessione di causa ed effetto, ciò che non è creato da lui stesso, ma da Dio (come la natura). (Continua)

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - volume primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito

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