venerdì 13 gennaio 2012

II] Il determinismo assoluto non riduzionistico di Spinoza

(Continuazione) Nella critica al finalismo divino, come proiezione del finalismo umano, Spinoza fornisce anche la giusta spiegazione del sorgere delle divinità nella mente dell'uomo. Secondo lui, poiché gli uomini agiscono sempre in vista di un fine, cioè in vista dell'utile a cui aspirano, poiché inoltre trovano i mezzi per il raggiungimento dei loro fini in sé e fuori di sé, e poiché sanno di averli trovati ma non prodotti, essi immaginano che esista qualcuno che abbia curato le cose al fine dell'utile dell'uomo. Da qui l'idea degli dei che dirigono "tutte le cose per l'uso degli uomini allo scopo di legarli a sé e da essere tenuti da essi in sommo onore"; e da ciò molteplici modi d'intendere questo rapporto tra gli dei e gli uomini, come tentativi di ricerca del modo migliore di farsi amare dalla divinità, così da ottenerne più profitto, in modo tale da soddisfare la "propria cieca cupidigia", la "propria insaziabile avidità".

Spinoza rincara la dose della sua sferzante critica: "Ma mentre così cercavano di mostrare che la natura non fa nulla invano (cioè nulla che non sia per l'uso degli uomini), essi non hanno mostrato altro, mi sembra, se non che la natura e gli Dei sono colpiti dal medesimo delirio degli uomini". E, quando essi, tra tante cose utili della natura, ne hanno trovate di nocive, come tempeste, terremoti, malattie, hanno giustificato la cosa come ira degli dei per le offese degli uomini, come peccati da espiare. E ciò avveniva, aggiunge Spinoza, nonostante "l'esperienza protestasse quotidianamente ad alta voce e mostrasse con innumerevoli esempi che i casi utili e i nocivi capitano egualmente senza distinzione ai pii e agli empi".

Con queste argomentazioni, Spinoza viene a porsi su un terreno scientifico molto più avanzato di molti scienziati, persino di epoche successive. Il paradosso è che egli giunga a questo risultato, avendo in mente soltanto la perfezione divina. Molto giustamente afferma che la natura non ha alcun fine, che le cause finali sono finzioni degli uomini. E questo è un risultato cui può giungere solo una mente scientifica. Poi afferma che se Dio agisse mediante un fine, "egli allora necessariamente" appetirebbe "qualcosa che gli manca"; e ciò sarebbe imperfetto. Se il finalismo vale per l'uomo, essere imperfetto, pieno di limiti e privazioni, non può valere per Dio, essere perfetto senza limiti e senza privazioni. E che cosa rappresenta questo risultato, se non il parto di una mente teologica fino alle estreme conseguenze?

Ci sarebbe da chiedersi: com'è potuto accadere che una mente teologica conseguente abbia prodotto, a riguardo del finalismo, lo stesso risultato di una mente conseguentemente scientifica? Teologicamente, Dio è troppo perfetto per avere dei fini, mentre l'uomo in quanto imperfetto, è costretto a porsi fini da raggiungere. Scientificamente, la natura non può avere dei fini, come dimostrano le tempeste, i terremoti, le malattie, mentre è l'uomo che è costretto a porsi in rapporto alla natura con il fine di utilizzarla. Dio e natura ricevono dall'uomo attributi fittizi: così se Dio non ha, teologicamente, alcun fine, e la natura non ha, scientificamente, alcun fine, le cause finali, attribuite a Dio o alla natura, sono soltanto finzioni degli uomini. E se Spinoza è pervenuto a questo risultato, è perché concepisce un Dio natura o una natura in Dio.

Se la natura non ha fini, il caso deve avere la sua parte. Spinoza, con l'esempio della pietra che cadendo dal tetto sul capo di un passante lo uccide, indirizza verso il caso. I finalisti, egli dice, sosterranno che la pietra è caduta per uccidere quell'uomo, e di ogni accidente chiederanno il perché, finché per via di riduzione non ci si rifugi "nella volontà di Dio, cioè nell'asilo dell'ignoranza".

"Parimenti, quando essi considerano la struttura del corpo umano, rimangono colpiti da stupore e, poiché ignorano le cause di un sì bel artificio, ne concludono che esso non è formato meccanicamente ma mediante un'arte divina o soprannaturale, e per questo costituito in modo che nessuna parte danneggi l'altra. E così accade che chiunque cerca le cause vere dei prodigi e si preoccupa di conoscere da scienziato le cose naturali e non di ammirarle da sciocco, è ritenuto generalmente eretico ed empio, ed è proclamato tale da quelli che il volgo adora come interpreti della natura e degli Dei. Essi sanno, infatti, che, distrutta l'ignoranza, è distrutto anche lo stupore, cioè l'unico loro mezzo di argomentare e di salvaguardare la loro autorità"
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In questo passo, che troviamo nell'appendice della prima parte dell'Etica, Spinoza cerca di emancipare la conoscenza scientifica dal pregiudizio e dalla superstizione religiosa. Ma può farlo nell'unica maniera possibile in un'epoca in cui anche i più coraggiosi studiosi temevano le risse con i teologi, e cioè cercando di adattare la religione alla necessità della ricerca scientifica. Più o meno consapevolmente Spinoza attua questo aggiustamento, da un lato respingendo il finalismo, dall'altro affermando la necessità assoluta nella forma di connessione causale di tipo meccanico.

In questo modo finisce col cadere in contraddizione: infatti, se si sottrae a Dio ogni attributo umano, come l'intelligenza, la volontà e il finalismo, ma si mantiene l'attributo divino di causa prima, senza avvedersi che anche la causalità è un attributo umano, si favorisce inconsapevolmente chi sostiene che anche intelligenza, volontà e finalismo sono attributi divini. L'uomo concepisce la causalità come intelligenza della connessione di tutte le cose, e sulla base del principio di causa ed effetto costruisce meccanismi per i suoi fini. Se Dio è causa prima delle cose della natura, intese come meccanismi, allora Dio deve avere anche dei fini e deve esprimere anche un'intelligenza e una volontà.

Non c'è da stupirsi, allora, che sulla base di posizioni contrastanti sia sorto lo scetticismo. Spinoza lo spiega nel seguente modo: "Sono, infatti, sulla bocca di tutti i detti: quante teste, tanti pareri; ciascuno abbonda nel proprio senso; le differenze dei cervelli non sono minori dei palati; e tutti questi detti mostrano abbastanza che gli uomini giudicano le cose secondo la disposizione del loro cervello, e le immaginano piuttosto che conoscerle intellettualmente". Il soggettivismo teologico affondava le sue radici nella religione che ostacolava la ricerca scientifica, costringendo le migliori menti dell'epoca, da Cartesio a Spinoza, a Leibniz, ecc. a tentare di adattare le esigenze della scienza alla religione. Ma tutte queste teste diverse, qualcosa in comune l'avevano: in primo luogo la certezza della connessione causale di tutte le cose che derivava dalla certezza della causa prima: Dio; in secondo luogo la certezza della matematica.

Ma se la matematica convinceva tutti, era perché la sua certezza derivava da certe regole create dall'uomo. In sostanza, la certezza della connessione causale e la certezza della matematica erano garantite dall'essere entrambe certezze del pensiero e dell'attività umana. Ma la natura non è un prodotto umano: perciò le cose naturali non presentano alcuna certezza causale, geometrica, ecc. Quanto a Dio, essendo un prodotto della mente umana, ovvero di cervelli diversi, doveva apparire necessariamente in varie fogge e con molteplici attributi, per i quali occorre soltanto ringraziare i numerosi cervelli che vi si sono dedicati.
   
Non potendo sottrarsi dal pesante condizionamento della teologia necessariamente soggettiva, persino Spinoza, che più di tutti ne fu consapevole, non poté fare altro che inchinarsi di fronte alla precisa certezza geometrica. E così, se Cartesio pretese affermare la certezza del suo metodo a immagine della geometria, Spinoza, che criticò Cartesio d'incoerenza, geometrizzò la sua Etica, immaginando di dimostrare le sue proposizioni alla stregua di teoremi. (Continua)

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume primo Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito

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