sabato 12 marzo 2011

La conoscenza reale e il "caso Galileo"

L'insistente citazione del famoso passo di Galileo sul libro della natura "scritto in lingua matematica", nelle intenzioni dei fisici teorici, è uno dei tanti modi per giustificare qualsiasi modello matematico dell'universo e della materia. Ciò che, però, essi dimenticano è la premessa che motivò quel passo: e cioè l'obiezione di Galileo a chi "stima che la filosofia sia un libro o una fantasia d'uomo, come l'Iliade e l'Orlando furioso, libri nei quali la meno importante cosa è che ciò che è scritto sia vero".

Dunque Galileo si servì della metafora del libro per affermare che la filosofia (scienza) non è un libro di fantasia, ma un libro di verità. Ed è solo dopo questa precisazione che egli scrisse il famoso passo: "Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta innanzi agli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intendere la lingua e a conoscere i caratteri, nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto".

La matematica, per Galileo, doveva fornire i mezzi per intendere l'universo. Niente di più. Egli era ben lontano dal concepire la matematica alla maniera dei pitagorici e di Platone. A questo proposito occorre ricordare che la grande fiducia accordata alla matematica da parte di Galileo, Keplero e Cartesio, e poi Newton, Kant, ecc. derivava dal fatto che essa era un'ingegnosa creazione dell'uomo. Nulla a che vedere con la natura, concepita come creatura divina e quindi piena di misteri che solo una "scienza divina e veneranda", come la chiamò Aristotele, avrebbe potuto risolvere. Poiché a quel tempo tutti erano credenti, persino Giordano Bruno, nessuno aveva dubbi sulla esistenza di un creatore, responsabile dell'ordine universale. I dubbi e i contrasti sorgevano soltanto quando si trattava di interpretare la creazione divina, quando si trattava di attribuirgli questa o quella volontà, questo o quell'ordine.

Date queste circostanze storiche, si può ben comprendere quale fosse il principale problema di Galileo: la sua intelligenza scientifica aveva bisogno di un pensiero libero dalla pesante tutela della teologia, soprattutto quando quest'ultima si ostinava a imporre l'antiquata autorità delle "Scritture Sante". Certo, nella sua lunga lotta per liberare il pensiero umano e condurlo nella direzione della reale conoscenza (negata per principio da Osiander e Bellarmino), egli fu, infine, sconfitto e costretto all'abiura.

Ma, rimanendo in ambito storico, chi ha riservato il trattamento peggiore a Galileo? La teologia che lo ha forzato all'obbedienza, e quattro secoli dopo ha fatto parziale ammenda, riabilitandolo tra mille reticenze, o la fisica teorica, che già a partire da Huygens ha abbracciato il relativismo e il convenzionalismo fittizi, accentuandoli nei secoli successivi fino a sfociare nella teoria stringhe? E non è finita: la fisica teorica, oltre ad aver scaricato Galileo da subito, ancora oggi lo considera un "ragazzaccio" per non aver accettato l'utile finzione.

Riguardo al trattamento riservato a Galileo, viene a proposito il recente libro di Odifreddi, dal titolo improprio di "Hai vinto Galileo!". Perché improprio? Perché, se veramente Galileo avesse vinto, i fisici teorici avrebbero smesso di fondare i propri modelli su utili convenzioni. L'autore compie una ricostruzione storica accurata e minuziosa degli eventi che si conclusero con la forzata abiura di Galileo. Peccato, però, che, essendo refrattario alla profondità del pensiero dei teologi, teste pensanti al servizio dei dogmi religiosi, egli sottovaluti le motivazioni che spinsero Osiander e Bellarmino a "suggerire" l'utile finzione alla nuova scienza che stava nascendo. Inoltre, non sembra essersi, ancora, reso conto che la fisica matematica ha da tempo seguìto il suggerimento teologico, divenendo una scienza convenzionale e fittizia.

Comunque, a pagina 76 del suo libro, Odifreddi fornisce argomenti che permettono di togliere ogni velo all'intera faccenda. Lo fa, però, inconsapevolmente, quando scrive: "Urbano VIII sosteneva dunque, come Andreas Osiander e Roberto Bellarmino poco prima di lui, ma anche Pietro Duhem e Willard Quine dopo di lui, che le teorie scientifiche non possono pretendere di spiegare come sia fatto veramente il mondo, perché sono solo interpretazioni possibili, è non necessarie dei fenomeni. Il che può anche essere vero (sic!!!), ma è sicuramente falso ciò che il papa voleva lasciare intendere: che invece la religione sia depositaria di una verità assoluta che è negata alla scienza".

Come si vede, il matematico Odifreddi addebita alla teologia non solo la colpevole pretesa d'essere l'unica a possedere la verità assoluta, ma soprattutto la colpevole ammissione dell'esistenza stessa della verità! La logica matematica, che da tempo domina la fisica teorica, si è così estraniata dalla verità (e, come conseguenza, anche dalla realtà e dal realismo), da respingerla con sufficienza. Così Odifreddi non critica Urbano VIII per aver negato alla scienza la conoscenza della realtà, ma per averla riconosciuta alla religione. Egli arriva persino a concedere, che riguardo alla impossibilità della vera conoscenza, possa "essere anche vero", ma pretende che ciò debba valere anche per la religione.

Come già osservato in altro luogo, gli attuali campioni del convenzionalismo fittizio della scienza pretendono negare la verità assoluta alla teologia volgendole contro l'argomento utilizzato da Bellarmino contro la scienza di Copernico e Galileo. A questi signori sembra sfuggire il fatto che una simile rivalsa va a tutto discapito di Galileo. Allora, il punto fondamentale è che, nonostante il risentimento di Odifreddi nei confronti dei pontefici di oggi e di ieri, la conoscenza della verità (la conoscenza della realtà), auspicata da Galileo, è negata dalla teologia né più né meno di quanto sia negata da Odifreddi, il quale si dissocia da questo inconsapevole ma profondo sodalizio soltanto per imporre anche alla religione la negazione della verità (dei suoi dogmi) e l'accettazione del relativismo.

Ma il meglio di sé, si fa per dire, il "matematico impertinente" lo dà quando si erge a giudice del comportamento di Galileo di fronte all'inquisizione, ritenendolo colpevole di mancanza di coraggio e perciò corresponsabile della forzata abiura. E per dare maggior forza al suo giudizio di condanna, cita Bertold Brecht che in Vita di Galileo mette in bocca all'infelice protagonista la seguente confessione: "non credo che la pratica della scienza possa essere disgiunta dal coraggio [...] Se gli uomini di scienza non reagiscono alle intimidazione dei potenti e si limitano ad accumulare il sapere per il sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre [...] Ho tradito la mia professione".

Magari la comunità dei fisici contemporanei fosse in grado di accumulare il sapere per il sapere, avendo come obiettivo la conoscenza reale! Il fatto è che, riguardo al giudizio su Galileo, Odifreddi segue le orme di Bellone: entrambi accomunati dal medesimo obiettivo: ridimensionare il "ragazzaccio" nella sua migliore qualità, l'aspirazione alla conoscenza reale (nonostante la doverosa difesa d'ufficio per fini di politica antiteologica). Fa però sorridere il fatto che, mentre Bellone, a suo tempo, bacchettò Galileo per essere stato troppo temerario canzonando Urbano VIII, Odifreddi lo bacchetti oggi per il motivo opposto, per non essere stato affatto coraggioso di fronte alla imposizione della abiura.

Ma chi era Galileo? Galileo era certamente un uomo del suo tempo, con tutte le debolezze coltivate dal secolo delle iperboli, interessato (non meno degli scienziati di oggi) alla buona nomea e alla buona borsa. Perciò, cercò sempre di essere onorato e sovvenzionato dai potenti, in particolare dai cardinali e dai papi. Ma era soprattutto un ostinato cultore della conoscenza reale. E' questo che non gli è mai stato perdonato: dai teologi, ieri; dai fisici teorici, oggi. E per oggi si deve intendere anche buona parte del Novecento.

Nella sua vera essenza il "Caso Galileo" è l'espressione di una abiura soltanto esteriore perché estorta, ed estorta perché fosse di monito a tutti. Ma, mentre lo scienziato che fu costretto ad abiurare, non cambiò mai idea sulla conoscenza reale, i fisici matematici successivi hanno interiorizzato questa abiura, rinnovandola a ogni generazione, così da ritrovarsi tutti sottomessi al convenzionalismo fittizio, legittimo erede del "suggerimento" di Osiander e Bellarmino.

Per concludere, Galileo avrà finalmente vinto, quando il suo obiettivo, la conoscenza reale, sarà fatto proprio dalla comunità dei fisici, divenendo così il fondamento della loro scienza. Come vedremo, siamo molto lontani da un simile esito.
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