sabato 5 marzo 2011

Difficoltà e limiti del pensiero illuminista sul rapporto caso-necessità (seconda parte)

Il dialettico realista Diderot

Il dileggio della religione, che contrassegnò il Settecento, attesta che gli illuministi furono molto più liberi degli ingegni del Seicento nei confronti della inflessibile necessità teologica, però essi furono soggetti ai capricci dei potenti; quindi più liberi, come giovani irridenti, nel pensiero, ma più schiavi dello stomaco, ossia più soggetti alla corruzione. Da qui le pene di Rousseau, incorruttibile e povero, il cinismo di Voltaire, corrotto e ricco, e in mezzo Diderot né povero né ricco e perciò non alieno ai compromessi, ma senz'altro il migliore perché più dialettico.

"Jacques il fatalista", "Il nipote di Rameau" e "La lettera sui ciechi" sono i suoi capolavori: nel primo, è mostrata la condizione casuale del singolo individuo che Diderot fa apparire come fatalismo; nel secondo, è espressa la contraddizione insolubile tra la necessità del libero pensiero e la necessità dello stomaco: da qui la coscienza scissa del filosofo illuminista; nel terzo, c'è l'intuizione della dialettica caso-necessità in relazione all'evoluzione dispendiosa della materia e alle mostruosità naturali.

Jacques ha un padrone. "Come si erano incontrati? Per caso, come tutti quanti". "Dove andavano? Ma c'è qualcuno che sa dove va?" Jacques racconta al suo padrone della pallottola che lo ha colpito al ginocchio, come di un evento casuale che ha prodotti due effetti non voluti: "Senza quella fucilata, per esempio, credo che non sarei mai stato innamorato né zoppo". Diderot ha compreso la casualità della esistenza individuale, ma sa anche che il singolo individuo ha sempre bisogno di una spiegazione per gli accidenti che gli accadono. Così "Jacques diceva che il suo capitano diceva che quanto ci accade di bene e di male quaggiù stava scritto lassù".

La condizione individuale è così fatta che l'individuo è cieco di fronte agli avvenimenti che lo riguardano. "Ma c'è qualcuno che sa dove va?" Diderot riporta l'avventura di Esopo che va ai bagni: incontra una pattuglia di Atene che gli chiede: "Dove vai?" "Dove vado? Non so proprio". "Non lo sai? fila in prigione". E di rimando Esopo: "Ebbene non avevo detto che non sapevo dove andavo? Volevo andare ai bagni, ed ecco che vado in prigione..."

Spiritosamente qui si insegna che la domanda giusta non può essere: "dove vai?" o "cosa fai?", ma "dove vuoi andare?" o "che cosa vuoi fare?", perché tra il volere e il fare si interpongono gli imprevisti, le circostanze non volute, ossia il caso, in tutte le sue varie manifestazioni, che trasforma una possibilità voluta in una realtà contingente diversa, in genere non voluta.

Che differenza passa tra l'idea del padrone di Jacques secondo la quale tutto ciò che capita all'individuo sta scritto lassù, ossia tra l'idea del fato, e l'idea del caso? Dal punto di vista della prevedibilità dei singoli eventi, nessuna, perché l'individuo è cieco in entrambi i casi, sia che gli eventi gli accadano per fatalità sia che gli accadano per caso. Dal punto di vista del narcisismo umano, c'è però una bella differenza: il fato, soprattutto se è provvidenziale, significa che lassù c'è qualcuno che si interessa a noi. Sotto quest'ottica, poi, ognuno la può pensare come vuole: immaginare un fato coerente con l'ordine divino oppure indifferente a tutto eccetto che all'ordine naturale. Qui ce n'è per tutti i gusti: ogni cultura ha personalizzato il fato in qualche forma divina o naturale.

Invece, se tutto dipende dal caso, se gli eventi si scapricciano con i singoli individui, pare quasi d'essere abbandonati a se stessi, senza alcun soccorso, e di non contar nulla per nessuno. Quando Jacques dice che il suo capitano non credeva alla prudenza e, di conseguenza, era un "diavolo d'uomo", un temerario che "andava al fuoco come al ballo", il fato qui assume le fattezze del caso, perché si può pensare di sfidare la sorte, anche la più temibile, solo affidandosi alla fortuna, ovvero al caso favorevole.

Ma c'è di più: Diderot collega la prudenza alla pretesa del determinismo riduzionistico. Così, il rifiuto della prudenza appare come una critica alla connessione di causa ed effetto, relativa ai singoli eventi che toccano gli individui. "Il mio capitano credeva che la prudenza sia una supposizione, secondo la quale l'esperienza ci autorizza a considerare le circostanze in cui ci troviamo come cause di certi effetti da sperare o temere per l'avvenire". Ma "chi può vantarsi di avere abbastanza esperienza?" "E poi esiste un uomo capace di valutare esattamente le circostanze in cui si trova?" E ancora: "Siamo noi a guidare il destino o è il destino a guidare noi? Quanti progetti saviamenti concertati sono falliti, e quanti falliranno! Quanti progetti insensati sono riusciti, e quanti riusciranno!" L'individuo, dominato dal caso, è cieco, e ciecamente possono avere successo progetti insensati e fallire progetti assennati.

Non è un caso che Diderot abbia scritto un lungo saggio intitolato "Lettera sui ciechi ad uso dei vedenti" (1749). Si può considerare questo scritto una metafora della conoscenza umana: l'uomo, nei confronti della natura, è come un cieco. E Diderot coglie questa peculiarità: "la difficoltà che i ciechi incontrano a orientarsi nella confusione li rende amici dell'ordine". Così è la scienza umana: quando non riesce a districarsi nel groviglio della natura, diventa amica dell'ordine. In un'epoca in cui tutti credevano ciecamente alla concezione meccanicistica newtoniana, anche il nato cieco Saunderson afferma di credere all'ordine dell'universo sulla parola di Newton e di non opporsi alla concezione relativa allo stato attuale dell'universo; ma sull'universo primitivo, per il quale non ci sono testimoni, gli occhi non offrono risorse e i vedenti sono anch'essi dei ciechi.

E qui Diderot mostra d'essere molto avanti rispetto al suo secolo (ma anche a quelli successivi), quando fa dire a Saunderson che certamente si può immaginare che l'ordine dell'universo sia sempre esistito così com'è (idea newtoniana predominante nel Settecento), "ma permettetemi di credere che non sia affatto così; se dovessimo risalire all'origine delle cose e del tempo, e potessimo avere esperienza della materia automoventesi e del caos che assume un certo ordine, c'imbatteremmo in una moltitudine di esseri informi di contro a pochi già formati".

Diderot non solo possiede già il concetto di evoluzione, un secolo prima di Darwin, ma sembra proprio che intenda una evoluzione dispendiosa, fondata su grandi numeri casuali, e quindi su risultati statistici rari. Diderot, riflettendo sulla evoluzione della materia, non vede un ordine preciso, ma effetti distorti, imperfezioni e mostruosità. E tra queste, la cecita di Saunderson che dice: "Guardate bene signor Holmes, io non ho occhi. Che cosa abbiamo fatto a Dio, voi ed io, perché uno di noi possieda quest'organo e l'altro ne sia privo?"

Concependo una evoluzione dispendiosa, dove la perfezione è una rarità sorta da un gran numero di casi imperfetti, Diderot giunge fino a concepire l'ipotesi di mondi nati storpi, imperfetti, che "si sono dissolti, si riformano e, forse, si dissolvono a ogni istante negli spazi lontani, dove -dice Saunderson- io non giungo a toccare e voi non potete vedere, ma dove il movimento continua e continuerà a cambiare masse di materia, finché queste abbiano ottenuto una sistemazione nella quale potersi mantenere". E che cosa è questo nostro mondo? "Un composto soggetto a rivoluzioni, ognuna delle quali indica una continua tendenza alla distruzione; una rapida successione di esseri che si seguono, si spingono l'un l'altro e scompaiono; una simmetria effimera; un ordine contingente". "Quale prodigioso susseguirsi di generazioni di vite effimere attesta la vostra eternita!"

E' forse un caso che Diderot sia incarcerato subito dopo la pubblicazione della "Lettera sui ciechi?" In questa lettera egli passa ogni limite: la materia automoventesi può solo produrre rari risultati perfetti sulla base di un grande dispendio: i molti mondi possibili di Leibniz, dei quali il nostro è il migliore scelto da Dio, diventano qui gli infiniti mondi nati storpi, dai quali, con la cieca necessità che ha per fondamento il contingente, è sorto il nostro mondo con le sue imperfezioni, le sue vite effimere. L'evoluzione mostra dappertutto le prove di questo dispendio, e la cecità di Saunderson le simboleggia tutte.

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