mercoledì 23 marzo 2011

Concetti fondamentali di teoria della conoscenza I

Prima di inoltrarci nell'indagine del rapporto caso-necessità nel pensiero antico e moderno, è opportuno farsi un'idea di alcuni concetti fondamentali di teoria della conoscenza, che distinguiamo secondo la loro appartenenza: 1) alla sfera del caso, 2) alla sfera della necessità, 3) alla sfera della causalità. A questo scopo, utilizzeremo il Dizionario di filosofia di Abbagnano.

CONCETTI DELLA SFERA DEL CASO

Cominciamo con il concetto stesso di caso. Aristotele distingue due significati: il primo, che attribuisce all'ignoranza dell'uomo l'imprevedibilità e l'indeterminazione di un evento che appare, perciò, casuale; il secondo, che attribuisce la casualità dell'evento all'intersecarsi di cause diverse tra loro. Il primo significato è stato accolto dal determinismo riduzionistico, ed equivale alla negazione dell'oggettiva casualità; il secondo ha trovato impiego nella concezione probabilistica, ed è stato considerato come espressione di una oggettiva casualità. Ma entrambi i significati, per Aristotele, giustificano il rifiuto del caso e la sua sostituzione con la causa necessaria.

Sul concetto di accidente: Aristotele distingue due significati: 1) l'accidente casuale, come quando uno scava per mettere una pianta, e trova invece un tesoro; 2) l'accidente non casuale che, pur non essendo sostanziale, appartiene all'oggetto. Mentre nel primo significato, l'accidente è esterno all'oggetto in quanto deriva solo dal casuale intrecciarsi di varie cause, nel secondo è intrinseco all'oggetto stesso. Aristotele ha posto dentro la conoscenza scientifica solo l'accidente non casuale. Così, a partire dagli scolastici, per arrivare ai moderni, Locke, Spinoza, Kant ecc., tutti hanno accettato il significato di accidente non casuale che poteva rientrare nell'ambito della conoscenza.

In seguito utilizzeremo i due termini di accidentale e di casuale quasi come sinonimi, seguendo l'impostazione di Hegel. Fondamentale, qui, è chiarire che la negazione del caso nell'antichità è una conseguenza della scelta di fondare la necessità sulla connessione di causa ed effetto. Nessuno ha posto in connessione il caso con la necessità, neppure Epicuro, che sostenne il caso contro la necessità. Su questa negazione del ruolo del caso (che non ha permesso di comprendere la dialettica caso-necessità), manifestata per la prima volta da Democrito e canonizzata dalla sintesi aristotelica, nessuno in seguito è riuscito a concepire nulla di nuovo, a parte Hegel, Marx ed Engels. Ciò significa che il rifiuto del caso è stato espresso, fin dall'inizio, nell'unica forma possibile per lasciare il posto alla causa.

Sul concetto di contingente: Boezio lo utilizza per la prima volta in relazione al concetto di possibile, affermando che possibile e contingente significano la stessa cosa. Dobbiamo alla teologia scolastica questa identificazione che diede luogo a discussioni senza fine tra i filosofi del Seicento, Spinoza, Leibniz, Bayle ecc., riguardo alla contraddizione tra libero arbitrio e necessità fatale.

Con Leibniz il contingente viene posto in relazione al concetto di libertà. La contingenza viene così a identificarsi con la libertà in apparente opposizione alla necessità. Ora, poiché l'opposto del concetto di necessità è il concetto di caso, i fatti sono due: o la contingenza-libertà spodesta il caso, oppure si identifica con esso. Soluzione, quest'ultima, che Epicuro anticipò collegando libertà, caso e possibilità, in opposizione diametrale alla necessità fatale.

Per chiarire il rapporto esistente tra il concetto di contingenza e il concetto di possibilità, occorre precisare che, se il possibile è qualcosa che può realizzarsi, ma anche non realizzarsi, il contingente è ciò che, pur non assolutamente necessario, è divenuto reale. Il contingente è senz'altro un possibile, però ormai realizzato. Perciò, solo quando un possibile non è più solo possibile, ma è diventato realtà, esso rappresenta un contingente. Ora, poiché nel passaggio dalla possibilità alla realtà, interviene il caso, il contingente rappresenta semplicemente quel reale che si è attuato solo grazie all'intervento del caso. In definitiva, questo reale è ciò che si può definire realtà contingente. La realtà contingente differisce dalla realtà necessaria, quanto il caso differisce dalla necessità.

Il contingente rappresenta, quindi, il lato casuale della realtà, attribuibile ai singoli oggetti, individui di un complesso. Ad esempio, che una specie si riproduca rappresenta una realtà necessaria e duratura, ma che una coppia di animali di questa specie si riproduca è solo una possibilità che diviene realtà solo grazie a circostanze casuali: è questa la realtà contingente. Ma il pensiero moderno, a cominciare da Cartesio, Leibniz, ecc., avendo concepito la necessità in relazione ai singoli individui, secondo il metodo riduzionistico ereditato dalla teologia, non poteva essere in grado di comprendere la realtà contingente.

Consideriamo ora il concetto di possibile, il più difficile dei concetti per la sua oggettiva ambiguità. Secondo Abbagnano, si danno tre significati: 1) possibilità reale, che corrisponde al significato aristotelico: "ciò che è vero"; 2) possibilità oggettiva, che corrisponde al secondo significato aristotelico: "ciò che può essere vero"; 3) infine, possibilità logica, che corrisponde al terzo significato aristotelico: "ciò che non è di necessità falso".

Partiamo dal terzo significato: il "possibile logico" chiamato anche possibile formale, ossia ciò che non è necessariamente falso e non implica contraddizione. In questo senso, il possibile è semplicemente il non-impossibile. Così pensa Ockham; e dello stesso avviso è Leibniz che utilizza questo significato per la sua concezione formale dei molti mondi possibili che non implicano contraddizione, per cui il nostro è soltanto il migliore scelto da Dio.

Consideriamo il primo significato, "la possibilità reale": essa è stata sempre intesa come possibilità che è destinata necessariamente a realizzarsi. Il cosiddetto "argomento vittorioso" di Diodoro di Megara recita: tutto ciò che è possibile si realizza e ciò che non si realizza è impossibile. Diodoro così lega indissolubilmente il possibile al reale e al necessario. Il caso scompare.

Avicenna introduce la distinzione tra l'essere necessario e l'essere possibile, ossia tra ciò che deriva il suo essere da se stesso (e questo è Dio), o da altro (e queste sono le cose create). L'essere possibile è possibile finché è nulla, ma appena comincia ad essere, ciò significa che sono presenti tutte le condizioni o cause del suo essere, perciò è diventato necessario: necessario non per sé, ma per altro. Questo "necessario per altro" è il contingente.

La concezione di Avicenna è l'unica coerente con il presupposto dell'ente supremo: attribuendo a Dio l'assoluta necessità, questa teoria deve ammettere per le cose create una necessità soltanto contingente. E ciò significa che il contingente è quel possibile fra i tanti che si realizza. Questa concezione contiene dunque in sé l'idea che la sfera del possibile è più ampia della sfera del contingente, e quindi del reale. Il concetto di possibile è dunque ambiguo; chi stabilisce quale possibile si realizza? La teologia attribuisce a Dio la scelta. Per Leibniz, Dio sceglie il possibile migliore, ma alla maggioranza dei filosofi non è sfuggita la circostanza che spesso ciò che si realizza è il peggiore dei possibili, come nel caso delle mostruosità, dei cataclismi, delle disgrazie, ecc.

Hobbes, a sua volta, sostiene che se un possibile si realizza fra tanti, è perché ogni atto possibile deve verificarsi ogni tanto, altrimenti sarebbe impossibile. Generalizzando questa idea, se consideriamo il mondo nel suo complesso con le sue infinite possibilità, è giusto affermare che queste prima o poi, qua o là, si realizzano: sono i grandi numeri che garantiscono statisticamente la realizzazione delle infinite possibilità; ma se prendiamo dei segmenti del mondo, ci rendiamo conto che quanto più questi sono piccoli e contengono un piccolo numero di elementi, tanto minori sono le possibilità che si realizzino; così, se consideriamo i singoli oggetti, individui, allora le infinite possibilità scompaiono e persino quelle poche che rimangono possono anche non tradursi in realtà.

Abbagnano critica i seguaci della dialettica hegeliana, idealisti o materialisti, per aver sottolineato la possibilità reale come necessità inevitabile nel campo della storia, così da ritenere di poter prevedere e determinare il corso degli eventi storici. Chi, come Abbagnano, si accontenta delle "previsioni soltanto probabili", in tutti i campi, dalle scienze della natura alla sociologia e alla storia, ha buon gioco a criticare ogni forma di determinismo, anche quella che ha confuso la scuola marxista.

Era inevitabile che i marxisti, confidando sulla deterministica connessione di causa ed effetto, non comprendessero che i singoli avvenimenti della storia sono soltanto realtà contingenti, o possibilità realizzate fra tante sfumate, perché alla loro realizzazione contribuisce il caso, nelle sue molteplici e imprevedibili manifestazioni. E' solo osservando il complesso degli eventi nel lungo periodo, che si può comprendere la differenza che passa tra la necessità della tendenza complessiva e la casualità dei singoli "zig zag" della storia, come li chiamava Engels, che stanno a simboleggiare singoli risultati contingenti e casuali.

Da notare, ancora, quel che affermò Spinoza: "Chiamo possibilità le cose singolari, in quanto, considerando le cause da cui debbono essere prodotte, ignoriamo se esse siano determinate a produrle". Se al posto della "ignoranza delle cause", poniamo la casualità, indeterminabile in quanto tale, possiamo dire con Spinoza: solo le cose singole di un complesso sono possibili, e, realizzandosi, diventano realtà contingenti.

Perciò ha ragione Kierkegaard a considerare il possibile come indeterminato: il possibile è indeterminato perché la sua realizzazione dipende dal caso; e se il possibile rientra nella sfera del caso, è perché esso riguarda solo le singole cose di un complesso. Ma il filosofo della malinconia concepisce la faccenda in maniera teologica; egli crede che l'esistenza, in quanto singolarità, riguardi solo l'uomo. Secondo lui, nel mondo animale è più importante la specie dell'individuo, mentre nel mondo umano l'individuo non può essere sacrificato alla specie. In questo modo non può comprendere il rapporto tra la singolarità casuale e la necessità complessiva, sia in relazione alle specie animali sia a riguardo della specie uomo.

Passiamo al concetto di occasione. Con questo termine si è designata la situazione che provoca o facilita l'intervento di un'azione libera. Così, con "cause occasionali", si sono intese, fino dall'antichità e ancora nel medioevo, le cause considerate come occasioni per l'azione libera e diretta della divinità. Per i teologi medioevali, si tratta di cause finite di cui Dio si avvale per effettuare i suoi decreti.

La teologia ha concepito l'occasione per patrocinare il libero arbitrio come contrappeso alla necessità assoluta o necessità fatale. Se, per Epicuro, il caso è l'occasione di libertà, per i teologi, ma anche per filosofi come Leibniz, è l'occasione che permette la libertà (divina). Ironia della storia del pensiero, l'errore di aver fondato la libertà umana sull'occasione casuale, che in realtà è il fondamento della cieca necessità, accomuna il "porco Epicuro" ai suoi detrattori teologici.

Riguardo al concetto di disordine, è Bergson che introduce questo termine per significare non l'opposto del concetto di ordine, ma l'assenza di un determinato ordine cercato, come quando si dice: "non ci sono versi", perché si cercavano versi dove si trova prosa. Bergson distingue l'ordine geometrico, che ha sempre guidato la scienza moderna, da un'altra forma di ordine che chiama "ordine vitale", il quale appare disordine solo perché non è un ordine geometrico. Egli scrive: "Dei fenomeni astronomici si dirà che essi manifestano un ordine ammirevole, intendendo con ciò che si può prevederli matematicamente. E si troverà un ordine non meno ammirevole in una sinfonia di Beethoven che è la genialità, l'originalità e per conseguenza l'imprevedibilità stessa". In quanto tale, quest'ultima, secondo Bergson, appare una forma di disordine, ossia casuale.

Bergson chiama ordine diverso che, in quanto imprevedibile, appare come disordine (ossia come casuale), qualcosa di raro ed eccezionale come una sinfonia di Beethoven. Ma nel mondo che cosa prevale? Prevalgono i rumori assordanti, e, quando va bene, sinfonie scadenti di autori mediocri. E questi rumori, suoni, sinfonie di tutte le qualità rappresentano l'ampia base casuale che assorda i nostri timpani, dalla quale sorge come d'incanto, con la ferrea necessità della rara frequenza statistica, una sinfonia sublime che li delizia. Concependo come apparente disordine una forma di ordine naturale che si realizza solo eccezionalmente e con grande dispendio secondo la dialettica caso-necessità, Bergson ha fatto sparire il vero disordine, ossia il caso, senza il quale non si può comprendere l'ordine necessario, statisticamente raro. (Continua)

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Tratto da "Caso e necessità - l'enigma svelato - Volume primo Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito

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