(Continuazione) Nel secondo capitolo dal titolo "Le cause alla prova dell'esperienza", scrive Dessì che per Hobbes "l'uomo può ricostruire con certezza soltanto le cose che egli stesso produce come accade con la geometria e con l'etica e la politica"... "Conosciamo completamente ciò che siamo in grado di fare, di costruire, e questo vale, secondo Hobbes, per tutto ciò che è riconducibile all'azione dell'uomo, delle macchine e della politica. Conoscere qualcosa significa saperlo fare, conoscere la ragione che presiede alla sua costruzione. Nel caso della natura, prodotta da Dio e non dall'uomo, questi non può avere certezza e deve accontentarsi di ricostruire per via ipotetico-deduttiva il possibile processo che ha generato un particolare stato di cose".
Qui Dessì non coglie il punto fondamentale che rende onore al merito di Hobbes, e cioè l'aver riconosciuto la validità del principio di causalità per l'opera dell'uomo. Ma, dati i tempi, egli non poté liberarsi da una visione religiosa che concepiva la natura come opera di dio, quindi non potè concludere che il principio di causa-effetto apparteneva solo all'opera dell'uomo, dovendo accettare il principio della causa suprema, divina, della natura. E così, là dove il concetto di causa-effetto avrebbe potuto essere la semplice constatazione del determinismo specifico dell'opera umana, che è sempre stato alla base dello sviluppo tecnologico, sorsero questioni meschine, tautologiche, per giustificare la causalità divina.
Qui Dessì non coglie il punto fondamentale che rende onore al merito di Hobbes, e cioè l'aver riconosciuto la validità del principio di causalità per l'opera dell'uomo. Ma, dati i tempi, egli non poté liberarsi da una visione religiosa che concepiva la natura come opera di dio, quindi non potè concludere che il principio di causa-effetto apparteneva solo all'opera dell'uomo, dovendo accettare il principio della causa suprema, divina, della natura. E così, là dove il concetto di causa-effetto avrebbe potuto essere la semplice constatazione del determinismo specifico dell'opera umana, che è sempre stato alla base dello sviluppo tecnologico, sorsero questioni meschine, tautologiche, per giustificare la causalità divina.
Così, alla Dessì ciò che preme "sottolineare è il fatto che il rapporto causa-effetto viene interpretato da Hobbes come connessione razionale, cioè che la causa è ragione dell'effetto. In altre parole la connessione tra causa ed effetto è una connessione necessaria e sufficiente. La causa è necessaria, in quanto senza causa non si avrebbe l'effetto, e sufficiente perchè ogni volta che c'è quella causa si genera quel particolare effetto". "Ho parlato di Hobbes -continua Dessì- ma avrei potuto riferirmi altrettanto bene a Descartes, a Leibniz o a Spinoza. Quest'ultimo è molto esplicito nel terzo assioma dell'ETHICA: "Da una causa determinata segue necessariamente un effetto, e, al contrario, se non è data nessuna causa determinata, è impossibile che segua un effetto"."
Anche a prima vista, il rapporto di causa ed effetto, qui descritto, appare tautologico, cosa questa che era balzata agli occhi di Hegel. Peccato, quindi, che l'autrice dimentichi l'osservazione hegeliana secondo la quale la causa è lo stesso che l'effetto (c'è un effetto perché c'è una causa e viceversa) e si limiti solo a ricordare giustamente che tutti gli autori succitati appartengono alla tradizione meccanicistica (al determinismo meccanicistico), alla quale si aggiunse "la filosofia sperimentale di Newton", concordando tutti "nell'affermare la necessità del rapporto causa-effetto e la sua validità universale".
La prima vera critica al principio di causalità venne da Hume. "Entrambe queste tradizioni -scrive Dessì- vengono messe in crisi dall'analisi svolta da Hume...La domanda che Hume si pose è semplice: su quale base crediamo alla connessione necessaria tra causa ed effetto?" Non dalla ragione, risponde, ma neppure dall'esperienza. Detto questo, egli non gettò via la causa e il suo effetto, si limitò a dichiarare che è l'abitudine a osservare molti casi ripetuti che produce la necessaria idea di causa. Lo abbiamo già visto in precedenza su questo blog.
"In altri termini -conclude Dessì su Hume- l'osservazione e l'esperienza possono rivelarci numerosi esempi passati nei quali, senza eccezioni, un evento di un dato tipo è collegato a un evento di un altro tipo e questo per abitudine ci conduce a ritenere il primo la causa e il secondo l'effetto". "Come è ben noto -aggiunge Dessì- questa soluzione non piacque a Immanuel Kant, il quale pur riconoscendo che l'analisi di Hume è corretta per quanto riguarda l'impossibilità di fondare la relazione di causalità sull'esperienza, era convinto tuttavia che per render conto della stabilità del sapere scientifico fosse necessario riconoscere che la causalità è una delle categorie attraverso le quali l'intelletto umano pensa la natura".
Come abbiamo già visto nel nostro studio pubblicato in questo blog, Hume e Kant erano accomunati solo dal rifiuto del caso, ma riguardo alla causa, mentre il primo affermò il soggettivismo dell'abitudine, il secondo affermò l'oggettivismo dell'esperienza soggettiva del fenomeno: cioè la causa oggettiva a priori alla base della esperienza soggettiva a posteriori.
Anche a prima vista, il rapporto di causa ed effetto, qui descritto, appare tautologico, cosa questa che era balzata agli occhi di Hegel. Peccato, quindi, che l'autrice dimentichi l'osservazione hegeliana secondo la quale la causa è lo stesso che l'effetto (c'è un effetto perché c'è una causa e viceversa) e si limiti solo a ricordare giustamente che tutti gli autori succitati appartengono alla tradizione meccanicistica (al determinismo meccanicistico), alla quale si aggiunse "la filosofia sperimentale di Newton", concordando tutti "nell'affermare la necessità del rapporto causa-effetto e la sua validità universale".
La prima vera critica al principio di causalità venne da Hume. "Entrambe queste tradizioni -scrive Dessì- vengono messe in crisi dall'analisi svolta da Hume...La domanda che Hume si pose è semplice: su quale base crediamo alla connessione necessaria tra causa ed effetto?" Non dalla ragione, risponde, ma neppure dall'esperienza. Detto questo, egli non gettò via la causa e il suo effetto, si limitò a dichiarare che è l'abitudine a osservare molti casi ripetuti che produce la necessaria idea di causa. Lo abbiamo già visto in precedenza su questo blog.
"In altri termini -conclude Dessì su Hume- l'osservazione e l'esperienza possono rivelarci numerosi esempi passati nei quali, senza eccezioni, un evento di un dato tipo è collegato a un evento di un altro tipo e questo per abitudine ci conduce a ritenere il primo la causa e il secondo l'effetto". "Come è ben noto -aggiunge Dessì- questa soluzione non piacque a Immanuel Kant, il quale pur riconoscendo che l'analisi di Hume è corretta per quanto riguarda l'impossibilità di fondare la relazione di causalità sull'esperienza, era convinto tuttavia che per render conto della stabilità del sapere scientifico fosse necessario riconoscere che la causalità è una delle categorie attraverso le quali l'intelletto umano pensa la natura".
Come abbiamo già visto nel nostro studio pubblicato in questo blog, Hume e Kant erano accomunati solo dal rifiuto del caso, ma riguardo alla causa, mentre il primo affermò il soggettivismo dell'abitudine, il secondo affermò l'oggettivismo dell'esperienza soggettiva del fenomeno: cioè la causa oggettiva a priori alla base della esperienza soggettiva a posteriori.
Giunti a questo punto, come si può notare, Dessì non ha mai preso in considerazione il caso e le probabilità. A suo tempo quando, nel saggio già citato, "L'ordine e il caso", ne indagò approfonditamente il rapporto, ricostruendone la storia e il pensiero di molti autori delle probabilità, la questione del rapporto causa-effetto non fu neppure presa in considerazione, se non entro il solo ambito della differenza tra probabilità e frequenza. In questo saggio avviene la stessa cosa, ma rovesciata: trattando il rapporto causa-effetto, Dessì sembra dimenticare il caso e le probabilità.
Ma a pagina 37 afferma: "Nel metodo elaborato da Mill è presente tuttavia un importante fattore di novità. Quando parla di causa di un evento egli non intende riferirsi a un singolo evento ma a un insieme di condizioni". Insomma, Mill mette l'accento "sul fatto che alle volte le cause possono essere complesse e che lo stesso effetto può essere prodotto da una pluralità di cause diverse". In quel periodo egli non aveva dubbi sulla impossibilità di rinunciare alle leggi causali, sostiene Dessì, che aggiunge: "nel giro di pochi anni, muta radicalmente parere circa il fondamento del ragionamento probabile".
"Nel 1843... in sintonia col suo proposito di combattere ogni forma di apriorismo, Mill criticava la definizione della probabilità data da Laplace ("la probabilità di un evento è il rapporto tra i casi ad esso favorevoli e tutti i casi possibili quando questi sono ugualmente possibili") dicendo che essa si basava erroneamente non sull'esperienza ma sulla nozione a priori di equipossibilità. Questa definizione poteva andar bene quando applicata al lancio di un dado, ma non alla natura". In sostanza per Mill era legittimo in natura servirsi di ragionamenti basati sulla probabilità, ma soltanto nel caso in cui si sia in possesso di dati relativi a frequenze, rilevati sperimentalmente. Queste osservazioni sono giuste e fondamentali.
Ma poi Mill cambiò parere, dice Dessì che scrive "Non è azzardato sostenere che Mill abbia cambiato opinione nel momento in cui diventava consapevole che la sua primitiva interpretazione della probabilità in termini di frequenze aveva la conseguenza indesiderata di ridurre l'ordine naturale a semplice registrazione di regolarità. A suo parere, infatti, la frequenza può dar luogo esclusivamente a leggi empiriche e non a leggi causali: l'interpretazione frequentista della probabilità avrebbe comportato una conseguenza inaccettabile, la rinuncia a fornire una spiegazione incentrata nel reperimento delle cause".
Ecco il vero nodo della questione: la frequenza complessiva di probabilità individuali rende ragione della necessità del complesso annullando completamente il rapporto di causa-effetto! Rispetto alla natura, la frequenza complessiva rappresenta la reale conoscenza scientifica. Ma questo risultato di teoria della conoscenza non è mai stato accettato né dai deterministi democritei né dagli indeterministi epicurei! Riguardo ai primi, perché per loro esiste soltanto la necessità causale determinista, riguardo ai secondi, perché per loro non esiste alcuna necessità, ma soltanto l'indeterministica singola probabilità. (Continua)
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