venerdì 9 novembre 2012

I Paola Dessì: ma che cosa è la causalità?

Domandarsi "che cosa è la causalità", come fa Paola Dessì nel suo libro del 2008, "Alla ricerca delle cause", significa cominciare dalle origini, perché la questione della "causa" e dell'inevitabile "effetto" è stata posta almeno dal V secolo avanti Cristo (Leucippo). Dessì vi aggiunge il problema del libero arbitrio, ovvero dei "due termini coinvolti, cioè libertà e determinismo...". Poi, esprime la seguente tesi: che dalla concezione della causa di Aristotele alla concezione odierna sarebbe sopravvissuta soltanto la "causa efficiente".

Ma sul principio di causa ed effetto, ella ricorda che "continua ancora oggi ad aleggiare il fantasma di David Hume, il quale riteneva che la necessità del rapporto causa-effetto fosse il risultato di un nostro istinto naturale e non di ragionamento". In sostanza, Hume attribuì la causalità all'abitudine di trovare frequentemente un dato "effetto" da una data "causa" (soggettivismo).

Nonostante Hume avesse contribuito, nel Settecento, alla decadenza della causalità, dice Dessì (esagerando, perché il secolo successivo, l'Ottocento, è stato dominato dal determinismo fondato sul rapporto di causa ed effetto) che, dagli anni Sessanta del XX secolo, ci sarebbe stata una ripresa del concetto di causa, soprattutto in discipline pratiche come la medicina e il diritto. L'idea è interessante e da tenere presente per i motivi che vedremo  in seguito, nei prossimi post.

Secondo l'autrice, dal punto di vista storico, "Il mutamento fondamentale fu il passaggio da una fisica qualitativa quale era la fisica aristotelica, a una fisica quantitativa, come è la scienza di Galileo Galilei o di René Descartes". Ma quella di Cartesio, diversamente dalla fisica empirica di Galilei, fu una fisica dominata dal determinismo riduzionistico, fondato sul rapporto causa-effetto a livello delle singole cose (mentre per Dessì si tratta principalmente di riduzione alla sola causa efficiente). Ma, anche in questo senso, il concetto di causa non fu affatto sminuito, rimanendo pur sempre ancorato alla causa prima di origine divina, e quindi anche all'inevitabile finalismo di identica origine.

Senza dimenticare, ad esempio, il citato William Harvey, il quale nel "De motu cordis et sanguinis" (1628) concepì il cuore come una pompa meccanica, come un meccanismo, ma non si limitò a considerare il "semplice meccanismo idraulico", perchè lo interpretò anche in senso finalistico per "il rifornimento di calore alle parti periferiche dell'organismo". Ma, a parte il fatto che anche la medicina e la biologia attuali fanno ampio utilizzo del finalismo, all'epoca del meccanicismo seicentesco, all'epoca del grande Leviatano di Hobbes, ecc. era sempre Dio il garante dei meccanismi, delle loro cause e dei loro fini.

Interessante è il seguente passo dell'autrice: "Quello che permane attraverso le varie apparenze è materia in movimento, e a questa si arriva non attraverso la percezione ma attraverso l'intelletto. Il sapere scientifico si occupa della realtà al di là delle apparenze e, per Descartes, come per Galilei, è in grado di distinguere ciò che nel mondo è oggettivo e reale da ciò che invece è soggettivo e relativo alla percezione dei sensi". Occorre, però, notare che l'osservazione di Dessì vale più per Galilei (che teologicamente fu punito) che per Cartesio (che fu lasciato in pace).

Ma poi, alla fine, è così che l'autrice interpreta il pensiero del Seicento: "Non dobbiamo fare come lo spettatore ingenuo che crede che gli effetti sul palcoscenico siano reali. Dobbiamo invece cercare di scoprire le vere cause di quei segni che la natura ci mostra". Ma con questo paragone è facile andare in confusione e ritenere che la natura ponga trappole (come il grande palcoscenico della finzione terrena) con le quali si riteneva che Dio mettesse alla prova gli uomini (vedi lo scetticismo di Voltaire nel Settecento).

E quando Dessì pone il seguente titolo nel capitolo 4 "Il successo del paradigma meccanicistico", non fa che riconoscere il successo (immeritato) del determinismo meccanicistico che si è prolungato dal Settecento fino ad oggi. Ma, contraddittoriamente, a questo successo si è affiancato il successo altrettanto immeritato della "conoscenza soltanto probabile" di Laplaciana memoria, che è arrivata fino ai giorni nostri e che l'autrice così riassume: "In breve, la probabilità diventa lo strumento attraverso il quale accedere, almeno parzialmente, alla conoscenza dei complicati rapporti di causa ed effetto presenti in natura", dei quali l'autore di questo blog continua, invece, a negare l'esistenza.

Nel capitolo "5. Dalla ricerca delle cause finali alla ricerca delle finalità della natura", ossia dal passaggio di ciò che realmente non esiste ad un altro inesistente, Dessì non può evitare di contraddirsi: "L'espulsione delle cause finali dall'ambito della scienza non significa comunque la fine dell'interesse per la finalità della natura. Anzi, il concepire il mondo come un grande meccanismo favorì l'immagine di un dio orologiaio che crea questo meccanismo secondo finalità da lui volute. Certo, non si tratta più di finalità interna alla natura come avveniva nella fisica aristotelica, ma di finalità esterne, dovute all'esercizio della volontà divina". Non è, però, che la faccenda cambi molto: se dio è inteso come creatore della natura, dovrebbe aver introdotto in essa le sue finalità, di cui solo lui sarebbe a conoscenza (come appunto spiegò Aristotele, che presuppose la "scienza divina e veneranda" inaccessibile all'uomo). Comunque, alla fine, Newton concluse con l'immagine del "grande orologiaio".

Dessì, a suo modo, conferma: "In conclusione potremmo riassumere così il modo in cui ancora nei primi decenni dell'Ottocento si poneva il problema della ricerche delle cause: la scienza si occupa di cercare le cause dei fenomeni naturali, limitatamente alle cause efficienti ed escludendo le cause finali, ma per molti ciò non impediva la ricerca di finalità esterna alla natura, che rimandavano a una precisa volontà divina". Ma "A mutare significativamente il panorama della scienza ottocentesca, a metà secolo, intervenne la pubblicazione dell'Origin of Species di Charles Darwin, che dava una spiegazione plausibile e alternativa della storia della natura, grazie alla quale veniva esclusa la necessità di ricorrere a cause finali non soltanto interne alla natura ma anche esterne ad essa".

E così Darwin avrebbe avuto il merito di aver eliminato le cause finali! Ma il vero problema della scienza umana è sempre stato il primato del principio di causalità, e non di questo o di quell'aggettivo qualificativo. Ciò che Darwin chiamò il "terribile pasticcio" (dovuto al caso) era derivato in lui soltanto dalla esigenza imperiosa, in quanto religiosa, di dover ammettere scientificamente soltanto la previdente determinazione di causa-effetto, senza l'intrusione del cieco caso. (Continua)

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