venerdì 9 dicembre 2011

III] Kant: la cosa in sé inconoscibile e il caso inesistente

Eliminato il caso, rimangono solo le vuote tautologie e il noumeno

(Continua) 1) "Se il concetto ha una semplice connessione intellettuale con le condizioni formali dell'esperienza, il suo oggetto si dice possibile". Quindi, il concetto di possibile riguarda soltanto la possibilità delle condizioni formali dell'esperienza, permessa dai concetti a priori; è dunque possibile tutto ciò che non contraddice i concetti a priori. La possibilità kantiana non ha nulla a che vedere con l'oggettiva possibilità, che realmente si presenta come multiforme possibilità.

2) Se il concetto "è collegato alla percezione (sensazione come materia sensibile) ed è da questa determinata mediante l'intelletto, l'oggetto è reale". Quindi è reale soltanto ciò che è percepito come materia sensibile (esperienza, fenomeno) ed è determinato, ossia concepito, dall'intelletto. La realtà kantiana è dunque soggettiva, e nulla ha a che vedere con la oggettiva realtà di fatto, indipendente dalla coscienza.

3) Infine, se il concetto "è determinato dal collegamento delle percezioni in base ai concetti, l'oggetto si dice necessario". Quindi, se i concetti collegano le percezioni, la realtà di cui sopra è necessaria.

Insomma Kant, eliminato il caso, ha fatto scomparire ogni contraddizione; ma senza contraddizioni rimangono solo vuote tautologie, ad esempio: il possibile è tale se conforme alle condizioni formali dell'esperienza. Ma queste sono proprio le condizioni della possibilità dell'esperienza, perciò è possibile solo ciò che è possibile. Ancora, l'esperienza permette di percepire i fenomeni che sono reali se l'intelletto li può determinare, ossia concepire. Ma ciò è già ammesso per definizione: i fenomeni sono tali in quanto determinati, ossia concepiti a priori, dall'intelletto. I fenomeni sono per definizione la realtà soggettiva ammessa da Kant come oggetto di conoscenza.

Abolito il caso, tutto appare necessario, ma soltanto se si ammette la possibilità di collegare la sfera dei concetti a priori con la sfera delle percezioni a posteriori. Ma è il collegamento tra queste due sfere che non risulta possibile, e che Kant rende assolutamente impossibile inventando il noumeno. Il noumeno è lo steccato eretto tra il mondo sensibile dei fenomeni e il mondo delle cose in sé, inconoscibile: "il concetto di noumeno -egli scrive- non è altro che un concetto limite, per circoscrivere le pretese della sensibilità e quindi soltanto di uso negativo". "E' un concetto inevitabile", "in quanto concetto che delimita la sensibilità".

Insomma, il noumeno rappresenta il limite estremo concesso alla intuizione sensibile: la sua necessità consiste, per Kant, in ciò che esso impedisce all'intuizione sensibile di venire "estesa fino alle cose in sé", ossia sta a simboleggiare che "il territorio che si estende al di là della sfera dei fenomeni è (per noi) vuoto"!

Non c'è, quindi, da stupirsi che, se per noi c'è un vuoto che separa il mondo dei fenomeni dal mondo delle cose in sé inconoscibili, c'è anche un vuoto tra i concetti e le leggi a posteriori tratte dall'esperienza fenomenica e i concetti e le leggi a priori dell'intelletto. Ma, mentre Kant abbandona, per così dire, il primo vuoto chiamandolo noumeno, pretende di colmare il secondo vuoto con l'"accordo" o l'"unione" tra intelletto e sensibilità.

Poi è costretto ad ammettere: "In noi, intelletto e sensibilità soltanto in quanto uniti sono in grado di determinare gli oggetti. Tenendoli separati, si hanno intuizioni senza concetti oppure concetti senza intuizioni...". Ma è proprio la sua impostazione che produce questa separatezza tra intelletto e sensibilità e impedisce, perciò, qualsiasi unione o accordo tra loro. Così, quando Kant riserva all'intelletto il compito di circoscrivere la sensibilità creando un concetto limite come il noumeno, non trova l'unione ma stabilisce l'assoluta separazione tra sensibilità e intelletto. Basta leggere il brano che segue:
   
"Dunque, l'intelletto circoscrive la sensibilità, senza per questo allargare il proprio campo; mentre ammonisce la sensibilità a non pretendere di valere per le cose in se stesse, ma soltanto per i fenomeni, si forgia col pensiero un oggetto in se stesso, soltanto però quale oggetto trascendentale, che è causa del fenomeno (e quindi non fenomeno), che può essere pensato né come quantità, né come realtà, né come sostanza, ecc. (perché tali concetti esigono sempre forme sensibili, entro cui determinare un oggetto); nei riguardi di tale oggetto trascendentale si è completamente all'oscuro se esso sussista in noi o fuori di noi, se si annullerebbe con l'annullamento della sensibilità o se resterebbe"
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Quindi, per coerenza, Kant non può neppure sapere se il noumeno è in noi o fuori di noi, essendo completamente all'oscuro di esso. Il noumeno è quindi un concetto fittizio, vuoto di contenuto, intermedio tra l'oggetto fenomenico e la cosa in sé. Si potrebbe, a questo punto, osservare che, avendo distinto l'esperienza sensibile (dei fenomeni) dall'intelletto puro (dei concetti a priori), e il mondo dei fenomeni dal mondo della cosa in sé, egli avrebbe dovuto, per coerenza, considerare l'esperienza sensibile solo relativamente al mondo dei fenomeni e l'intelletto puro solo in relazione alla cosa in sé. Invece, ha collocato la cosa in sé in un empireo imperscrutabile, circondato dal vuoto noumeno, e ha preteso che l'intelletto puro dovesse intervenire nel mondo dei fenomeni, fornendo loro, per così dire, una specie di autorizzazione ad esistere solo per noi e una specie di divieto ad esistere in se stessi.

Così, invece di trovare il medio che unisse l'esperienza sensibile e l'intelletto puro, kant ha posto col noumeno un limite che separava irrimediabilmente queste due sfere, in quanto separava definitivamente il mondo fenomenico dal mondo della cosa in sé: "Se, per il fatto che la rappresentazione di tale oggetto non è sensibile, vogliamo chiamarlo noumeno siamo liberi di farlo. Ma, non essendoci concesso di applicargli alcuno dei nostri concetti, questa rappresentazione resta vuota per noi e tale da non servire ad altro che a segnare i limiti della nostra conoscenza sensibile, nonché a lasciar vuoto lo spazio che non ci è dato di riempire né con l'esperienza sensibile, né con l'intelletto puro".

Se si toglie all'intelletto puro il campo della cosa in sé, dichiarando quest'ultima inconoscibile, che cosa rimane all'intelletto puro, ossia alla conoscenza oggettiva? Assolutamente nulla. Perciò dire che l'intelletto nel suo campo non erra mai, così come la rappresentazione sensibile nel suo campo non può errare perché i sensi "non giudicano mai", e concludere che l'errore deriva "dall'influsso inavvertito della sensibilità sull'intelletto, per cui succede che i fondamenti soggettivi del giudizio si mescolino con quelli oggettivi...", tutto ciò non significa assolutamente nulla, perché Kant ha tolto i fondamenti oggettivi dell'intelletto.

Per ritrovare qualche nesso interessante occorre abbandonare la Critica della ragion pura e passare alla Critica della ragion pratica, dove vedremo che, ancora una volta, il concetto di causa è invocato per mettere fuori campo il caso.

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Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma risolto - Volume primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002) Inedito

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