lunedì 19 dicembre 2011

I) Fox Keller: il meccanicismo metaforico della genetica

La storica della scienza, Fox Keller, in "Vita, scienza e cyberscienza" (1995), compie una ricognizione sulla concettualizzazione della genetica del Novecento, dimostrando che si è trattato sempre e soltanto di metafore meccanicistiche. Come vedremo, si conferma la nostra tesi secondo la quale i biologi del secolo appena trascorso, privi di una teoria realistica, non sono riusciti a rendere ragione, spiegare, in definitiva, conoscere realmente i processi e i fenomeni della vita; e non hanno potuto fare altro che rifugiarsi nel vecchio convenzionalismo fìttizio.

Cominciamo da una domanda fondamentale alla quale la comunità scientifica non ha finora risposto: "Da tempo i genetisti credono (e negli ultimi anni la credenza si sta diffondendo sempre di più anche nell'opinione pubblica) che i geni siano gli agenti primi della vita: che siano le unità fondamentali dell'analisi biologica, e che il fine ultimo della scienza biologica sia di capire come essi agiscono". Da qui "il discorso sull'azione del gene" che sta alla base del varo del "Progetto Genoma Umano". "Ma che cosa significa attribuire (oppure negare) potere causale ai geni? Fino a che punto questo modo di dire riflette un insieme di "fatti di natura" e fino a che punto invece riflette i fatti di cultura di una particolare disciplina? Ed è soltanto un modo di dire? O non è anche un modo di pensare, di vedere e fare scienza?"

A questa domanda si può rispondere facilmente, ma solo se si è in grado di distinguere la conoscenza convenzionale dalla conoscenza reale. Poiché da troppo tempo la comunità scientifica ha respinto la conoscenza reale (e non ha perciò alcuna idea di come possa essere ottenuta), a favore della conoscenza convenzionale e fittizia, la domanda non può avere una risposta. Anzi, la domanda stessa non si pone, perché per la scienza attuale l'attribuzione della causalità ai geni è nel contempo un modo di dire metaforico convenzionale e l'unico modo di pensare, vedere e fare scienza: dunque un modo fittizio che non riflette i "fatti di natura", ossia i processi e i fenomeni della vita.

Partendo dagli studi di Morgan degli anni '20, dice la Keller, il genetista spiegò che "la teoria mendeliana postula corpi discreti, autoperpetuantesi, stabili - i geni - che risiedono sui cromosomi, quali materiali ereditari. Ciò significa, ovviamente, che i geni sono gli agenti interni primari che controllano lo sviluppo". Come si vede, i "geni" sono stati introdotti convenzionalmente ancor prima di sapere che cosa fossero. Uno studente di Morgan, H.J. Muller, nel 1926, intitolò un articolo "Il Gene: la base della vita". Insomma, il primato del gene è stato posto quando ancora non se ne sapeva nulla.

La Keller è costretta a rilevare: "Oggi può sembrare difficile capire che cosa ci fosse di discutibile in questa affermazione. L'attribuzione di operatività, di autonomia, di causalità primaria ai geni è diventata così familiare da sembrare ovvia, quasi tautologica". Ma poi, osservando che Morgan, Brink e Muller sostenevano "Prima viene il gene, poi la vita. O meglio, con il gene arriva la vita", e che "Soltanto l'azione dei geni può innescare la complessa molteplicità dei processi che compongono l'organismo vivente", obietta: "Ma cosa fanno di preciso i geni? A questa domanda non potevano ovviamente rispondere né Muller né Brink né Morgan. L'idea di "azione del gene" può addirittura esser stata favorita dalla assenza di conoscenza su cosa fosse un gene".

L'osservazione è giusta: la mancanza della conoscenza della "cosa", ha sempre favorito l'introduzione di metafore convenzionali che hanno preso arbitrariamente il posto della "cosa" stessa. Secondo la Keller questi primi scienziati della vita hanno creato una specie di parola d'ordine, di idea forza: "Il discorso sull'azione del gene, un discorso che, per la genetica, è stato innegabilmente produttivo". "Intendo dire che il discorso sull'azione del gene assegna un marchio di garanzia (o un marchio di fabbrica) alla scuola americana della genetica morganiana, in particolare al suo approccio allo sviluppo".

L'autrice ci tiene a sottolineare la validità di un metodo che il pensiero del passato avrebbe considerato soggettivistico: "Secondo Jan Hacking ogni disciplina scientifica ha un proprio "stile di ragionamento" che ne costituisce il contesto epistemologico. In altre parole, uno stile crea la possibilità stessa della verità o della falsità e quindi determina lo scopo principale (1982). Il mio concetto di discorso si avvicina a quello stile proposto da Hacking"!

Ma se ogni disciplina scientifica ha il suo "stile", quello della embriologia non poteva accettare a cuor leggero "l'azione del gene". Così gli embriologi obiettarono: "come può una cellula germinale svilupparsi in un organismo multicellulare? Se tutte le cellule di un organismo hanno un contenuto genetico uguale, come si può dar conto dell'emergenza di palesi differenze tra le cellule che compongono un organismo complesso? Agli embriologi sembrava evidente che il problema della differenziazione, così radicato nel cuore della loro preoccupazione, fosse semplicemente incompatibile con l'idea del gene in quanto locus esclusivo dell'azione". Persino Morgan avanzò perplessità osservando che "Nella maggior parte dell'interpretazione genetica, è implicito che tutti i geni agiscano per tutto il tempo alla stessa maniera. Questo lascerebbe inspiegato il fatto che alcune cellule dell'embrione si sviluppano in un modo e altre in un altro, se i geni fossero gli unici agenti di questi risultati" (1934).

Non tenendo conto di questa perplessità, i genetisti, compreso lo stesso Morgan, unicamente interessati al rapporto tra i geni e lo sviluppo, riformularono il problema cambiando l'oggetto dello sviluppo. Alfred H. Sturtevant, al Congresso internazionale di genetica del 1932, relazionando sugli effetti dei geni sullo sviluppo, suggerì il seguente compromesso: ciò che rappresentava tradizionalmente il maggior problema dell'embriologia (come fa un uovo a svilupparsi in un organismo complesso pluricellulare) diveniva anche un problema della genetica nella forma della seguente domanda: "Come producono i geni i propri effetti?".

Le soluzioni proposte furono due. Sturtevant risolse il problema nel modo seguente: "un gene "produce il proprio effetto", attraverso "una catena di reazioni" o "attività dirette", che dà il prodotto finale, il carattere". Invece, Goldschmidt espresse la seguente formulazione: "Che i geni erano insieme catalizzatori e catalizzati, reattori e "sostanze reagenti"!" Ai genetisti americani piacque di più la prima soluzione. Scrive La Keller: "Per i genetisti americani, tuttavia, la riformulazione del problema da parte di Sturtevant e le sue raccomandazioni sulla necessità di analizzare le "catene di reazioni nei loro singoli anelli" erano immensamente attraenti; di sicuro sembravano molto più chiare delle enunciazioni di Goldschmidt".

Era l'attrazione fatale del riduzionismo, che ha sempre illuso gli scienziati di determinare i singoli elementi di un complesso. In maniera riduzionistica si poté così passare dalle cellule degli organismi pluricellulari agli organismi unicellulari, come "la neurospora, un organismo unicellulare che si può coltivare in vitro". E cosa scoprirono? La famosa legge, poi smentita, di "un gene, un enzima". Con l'introduzione di questa ipotesi, "la genetica dello sviluppo poteva ormai venire intesa come la biochimica dell'azione del gene". In definitiva, sostiene l'autrice, "La doppia scelta della neurospora e della biochimica dell'azione del gene ha avuto un'importanza decisiva per l'avvenire della genetica. Quel cambiamento ha favorito in maniera cruciale lo sviluppo della genetica dei batteri e, successivamente, della biologia molecolare. Il resto della storia è noto".

Si tratta della soluzione di Watson e Crick della doppia elica di DNA, contenente l"'informazione genetica". "I genetisti e i biologi molecolari erano euforici: eccola, la risposta! Il DNA trasporta l'"informazione genetica" (o il programma) e i geni "producono i propri effetti" fornendo le "istruzioni" per la sintesi delle proteine. Il DNA fabbrica l'RNA, l'RNA fabbrica le proteine e le proteine fabbricano noi". Questa fu la beata illusione riduzionistica, lineare e informazionale dei biologi molecolari! La Keller, pur apprezzando questa soluzione, pone una domanda imbarazzante: "Era senza dubbio una delle massime pietre miliari nella storia della scienza. Ma, si sarebbe potuto chiedere (anche se all'epoca lo fecero in pochi), che razza di risposta è? Che cosa significano nei fatti informazioni, programmi, istruzioni, e - già che ci siamo - il verbo fabbricare?"

Ma poi si allinea al coro generale di approvazione: "Watson e Crick hanno ricevuto molti plausi, e meritati per il loro lavoro, ma temo che sia stato trascurato un loro contributo: l'introduzione della metafora dell'informazione nel repertorio del discorso biologico è stata un vero colpo di genio". Frase questa, che svela l'impostazione logica dell'autrice: le metafore hanno valore scientifico! E ciò viene confermato dal seguente passo: " ... l'amalgama tra informazione, programma e istruzione ha ampiamente rafforzato il concetto di azione del gene. Così, come aveva anticipato Erwin Schrodinger nel libro Che cos'è la vita?, le strutture cromosomiche sono, contemporaneamente, ... codice di leggi e potere esecutivo o, per usare un'altra metafora, sono il progetto dell'architetto e insieme abili costruttori". Ma, possiamo, di nuovo, chiederci (cosa che non passa neppure nella mente dell'autrice): possono queste metafore permetterci di conoscere la realtà? La risposta non può che essere negativa.

Invece, nel paragrafo "Un'ironia della storia", la Keller pone una domanda che contiene già una risposta favorevole alla conoscenza metaforica: "Cosa intendo allora quando dico che il discorso sull'origine del gene, arricchitosi ormai con le metafore dell'informazione e delle istruzioni, ha esercitato una forza determinante della ricerca biologica?" Le parole, aggiunge, hanno una forza per la loro influenza sugli attori: gli scienziati. "Il discorso sull'origine del gene ha funzionato proprio così. E sarebbe da stupidi (!) fingere che non abbia funzionato bene (sic!). La storia della biologia del XX secolo è quella di un straordinario successo: la genetica, prima classica e quindi molecolare, ha prodotto alcuni dei più grandi trionfi della scienza contemporanea" .

Ma se è così, perché poi si è scoperto che il protagonista principale di questa storia, il DNA, è risultato una "molecola morta" che non fa niente? La Keller è costretta ad affermare: "Negli ultimi anni, la biologia molecolare ha fatto progressi straordinari nel chiarire proprio il modo in cui (come dicono) i geni controllano lo sviluppo. Ma è successa una cosa strana, sulla via del Santo Graal. Quello straordinario progresso è diventato sempre meno descrivibile dal discorso che lo ha favorito". "Come ci ricorda Richard Lewontin, "Il DNA è una molecola morta, chimicamente inerte, una delle molecole meno reattive del mondo vivente ... Non ha alcun potere di riprodursi, viene piuttosto fabbricato da materiali elementari mediante un complesso macchinario (sic!) cellulare di proteine. Mentre si dice spesso che il DNA fabbrica le proteine, in realtà sono le proteine (gli enzimi) a fabbricare il DNA".

E ancora: "Non solo il DNA non è in grado di fabbricare copie di se stesso ... ma non è neppure in grado di produrre alcunché". "Ma, penserà il lettore o la lettrice, tutto ciò non lo si sapeva da tempo? Beh si e no". Sembra, dice l'autrice, che Lewontin sia stato il primo a fare questo discorso. "La novità era che le osservazioni banali (!) di Lewontin ricominciavano a sembrare improntate al buon senso biologico, persino in genetica. La stessa genetica tornava a studiare gli organismi superiori - mosche, rane e topi - e riscopriva così i vecchi problemi della embriogenesi". (Continua)

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Tratto da "Chi ha frainteso Darwin?", edito nel 2009.

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