venerdì 19 agosto 2011

La dittatura dell'incerto presente

Tratto da "Scritti sulla globalizzazione" (2005-2007)

Dichiarare la "fine della storia", come ha fatto Fukuyama, è lo stesso che dichiarare la fine degli storici, a meno che non si riciclino. Ma in che modo? Facendo la storia del presente? Su questo aspetto una recente testimonianza ci viene dal Festival della filosofia tenuto a Roma dall'11 al 14 maggio 2006, del quale ha anticipato i contenuti Marc Augé in un articolo comparso su "La Repubblica" il 5 maggio, con il titolo molto significativo di "Dittatura dell'incerto presente". Questo l'incipit: "Da uno o due decenni a questa parte il presente è divenuto egemonico. Agli occhi dei comuni mortali esso non è più l'esito del lento evolversi del passato, non lascia più intravedere un abbozzo del futuro possibile, ma si impone come un fatto compiuto, opprimente, il cui inopinato palesarsi fa dileguare il passato e saturare l'immaginazione dell'avvenire".

Ora, se è vero che dall'inizio della "globalizzazione" la storia del passato è stata praticamente seppellita, non è affatto vero che l'oppressione del presente come "fatto compiuto" appartenga soltanto a questo periodo storico. In ogni epoca, durante la quale ha prevalso la conservazione dei "fatti compiuti" in economia, in politica e nei rapporti tra gli Stati, la storia del passato è stata trascurata o presentata in forma falsificata, distorta e convenzionale. Solo nei periodi rivoluzionari, come ad esempio nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo, la storia reale è tornata in auge.

Nel Novecento, dopo due guerre mondiali e la conclusiva "pax americana", la storia ha preso decisamente la strada dell'utile convenzione, della falsificazione e dell'impostura. Non c'è dunque da stupirsi del fatto che su questa via si sia trovato alla fine un cartello con scritto "stop alla storia". Perché affaticarsi tanto a falsificarla, quando si può stabilire una volta per tutte che essa è finita? Ma qui troviamo la vera ragione di questa fine ingloriosa: affermare la fine della storia non significa soltanto la fine dell'interesse scientifico verso il reale passato della società umana, significa la fine anche dell'interesse per il suo futuro. Si chiude il passato in un sepolcro inviolabile solo per evitare di dover fare i conti con il futuro.

Allora diventa chiaro il motivo per cui l'attuale fase della "globalizzazione" viene presentata come una novità, senza legami con il passato, ossia senza origine e perciò senza fine. Se si avesse il coraggio di studiare la storia passata, si dovrebbe ammettere che questa fase rappresenta la senescenza del capitalismo e che, quindi, siamo vicini alla sua fine, e con questa alla fine della egemonia mondiale americana. Ammettere questa realtà significherebbe, però, dover affrontare le terribili conseguenze di questi trapassi. Molto meglio, allora, illudersi che il moribondo viva in eterno, che il solo problema del futuro sia un pacato confronto tra USA e Cina e, tanto per distogliere l'attenzione dell'umanità dalle cose serie, gridare ai quatto venti: "guerra al terrorismo"!

Ormai il mondo attuale impegna tutti, dagli analisti ai filosofi, dai sociologi agli storici riciclati, dagli economisti ai politici, sulla guerra al terrorismo, e Marc Augé fornisce un esempio di come si possa affrontare questo tema sotto "la dittatura dell'incerto presente". Secondo lui un evento straordinario come l'11 settembre non sarebbe più "un punto di arrivo di qualcosa che occorre spiegare, bensì un punto di partenza che spiegherà ogni cosa. Questo è il senso, questa è la funzione della seconda guerra irachena e, più in generale, della guerra dichiarata al terrorismo". Il punto fondamentale è, però, un altro: il singolo evento storico nel suo manifestarsi rappresenta il presente e appartiene al regno del caso. Un evento singolo non può, perciò, spiegare niente né prima né dopo: il singolo evento storico può produrre tutto e il suo contrario, perché nessuno può prevedere come esso si collegherà necessariamente ad altri singoli eventi che parteciperanno, alla fine, al complesso definitivo che rappresenterà la cieca necessità storica.

Ora, l'apparente novità dell'11 settembre viene facilmente smascherata da Seraievo (prima guerra mondiale) e da Pearl Harbour (seconda guerra mondiale): si è trattato, in tutti questi casi, di puri e semplici pretesti per dichiarare guerre già decise. E quando l'evento è un pretesto, si tratta solo di sapere di che cosa è pretesto; ma stabilire questo è la cosa più facile del mondo per uno storico, perché basta osservare gli eventi successivi. Ma, se anche riconosciamo in un evento, come l'11 settembre, il pretesto di una guerra già decisa, questa non è reale conoscenza della necessità, innanzi tutto perché, anche se è provocato ad arte, ci si può sempre chiedere: chi e perché ha compiuto una simile scelta e non un'altra? Inoltre, se la singola scelta è casuale, anche le sue conseguenze lo saranno producendo, ad esempio, risultati non voluti. Domanda: dovevano proprio collassare le due torri, o questo evento ha sorpreso tutti?

Ciò che conta per l'indagine storica è stabilire la ragione necessaria di quel complesso di eventi che rientrano oggi nella cieca necessità della "guerra al terrorismo", così come ieri ciò che ha avuto significato storico necessario è stato il complesso di eventi chiamato "guerra fredda". Allora, solo il recupero della storia del passato ci permette di comprendere la cieca necessità della "guerra al terrorismo", come processo complessivo, per il quale i singoli eventi contano meno di niente, mentre il mantenimento della egemonia americana nel Sistema di Stati conta più di tutto.

Se l'uomo comune è dominato dal presente, se, come scrive Augé: "nelle società oggi sviluppate si assiste a una forte amplificazione della paura dell'evento", tutto ciò non ha niente a che vedere con la scienza della storia, e non dovrebbe toccare gli storici, se non per mostrare come la cieca necessità economica e politica agisca sul senso comune, sulle sue debolezze e paure. Ciò che del resto è sempre avvenuto: basta ricordare come gli antichi supplicassero gli aruspici per ottenere responsi favorevoli e guadagnarsi il favore degli eventi futuri. 

Oggi, l'"amplificazione della paura dell'evento" è solo una conseguenza della potenza dei mezzi di comunicazione di massa, al servizio della cieca necessità del marketing, e ha una precisa funzione: la paura spinge allo shopping molto, molto più di una tranquillizzante campagna mediatica sulla sicurezza dell'esistenza individuale.

P.S. E' forse un caso che, nell'agosto 2011, in Italia, si arrivi a offrire il Tfr mensilmente, come una medicina per sostenere lo shopping in crisi? Se la "dittatura dell'incerto presente" oggi imperversa sulle borse, i singoli atomi della società civile, gli individui, devono perdere i loro risparmi per sottomettersi al "credito al consumo" e fare la loro parte come shopper! E' il marketing che lo pretende.
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