lunedì 22 agosto 2011

Deja vu: crollo delle borse III

La crisi delle borse e la pretesa responsabilità dei comportamenti individuali  (scritto nel 2008)

Paradossalmente, il pluralismo relativistico laico e il dogmatismo teologico, sempre in polemica tra loro, si trovano oggi dalla stessa parte nell'assumere, come protagonista del "lunedì nero" delle borse, il comportamento individuale. La cieca necessità complessiva del capitalismo senescente viene, così, messa al riparo (nascondendola dietro il paravento del comportamento individuale) proprio da quelle due ideologie che, pur da opposti fronti, temono la conoscenza reale del processo economico capitalistico.

Sul versante laico, pluralista relativista, troviamo il direttore del "Corriere della sera", Pietro Ostellino, il quale, due giorni dopo il "lunedì nero", ha attaccato violentemente i "sistemi chiusi e dispotici" nel momento stesso in cui la sua amata "società aperta", la democrazia liberale, a dire di tutti, sta rischiando il "grande crollo". Per difenderla, egli sostiene che "il liberalismo -prima di essere la dottrina delle libertà e dei limiti del potere (politico, economico, sociale)- è una metodologia empirica della conoscenza. Che riconduce tutti i fenomeni attribuibili a soggetti collettivi -i sistemi politici, le istituzioni, il mercato, il capitalismo, eccetera- ai comportamenti individuali".

Questa "metodologia", che effettivamente domina le scienza naturali, altro non è che il riduzionismo, ossia la pretesa di fondare la necessità della conoscenza riducendo i complessi ai singoli elementi costituenti. Ma, paradossalmente, essa non apparteneva al caposcuola del liberismo, Adam Smith, il quale, al contrario, concepiva, come soggetti protagonisti, i ceti sociali, distinguendo, ad esempio, quelli produttivi da quelli improduttivi, e lo stesso faceva il caposcuola del liberalismo, John Locke distinguendo la classe dei proprietari da quella dei lavoratori dipendenti. Ci penseranno i marginalisti a sbriciolare le classi sociali in aggregati di singoli individui, "responsabili" dei propri comportamenti individuali nel consumo.

La novità dell'Ostellino-pensiero consiste nell'estremizzazione riduzionistica, che annulla completamente i "soggetti collettivi" (tra i quali, principalmente, la specie umana) con un'argomentazione mai prima udita: "I soggetti collettivi, a differenza degli individui, non hanno una personalità propria, non pensano, né agiscono. E', del resto, così che, nella dottrina liberale, il concetto di libertà è strettamente associato a quello di responsabilità". A tal punto poco "associato" che il liberalismo è nato negando questa qualità ai lavoratori dipendenti per riservarla soltanto alla borghesia (tanto poco contavano per esso gli individui). Ma Ostellino, non vuole sentire ragioni: "Ed è perciò, anche evidente- egli scrive-, che a fallire, in una società "aperta" sono gli uomini -i soli cui far risalire la capacità di operare delle scelte (sic!)- non il sistema, il capitalismo, il mercato".

Insomma, per allontanare ogni responsabilità da un capitalismo ormai decrepito, Ostallino teorizza un individualismo estremo come capro espiatorio, senza avere la pur minima idea del fatto che i singoli individui, presi in se stessi, sono soggetti a circostanze casuali e le loro scelte (in quanto tali soggettive) non hanno mai, come fondamento, la certezza della necessità, e non hanno mai, come conseguenza, il risultato voluto. Egli dimentica che oggi gli uomini non contano come individui, ma come masse di azionisti, di giocatori alle lotterie nazionali, ecc., infine, come masse di shopper, vitali per la sopravvivenza del capitalismo senescente.

Ora, se consideriamo un vecchio opinionista navigato come Alberto Ronchey, possiamo vedere come, in maniera molto più soffice, si possa sottrarre ogni responsabilità al "sistema capitalistico", appellandosi alla salute mentale venuta a mancare all'"homo economicus", (cosa che senz'altro è un segno dei tempi, senza però esserne determinante). Secondo lui, all'origine della crisi del 6 ottobre, ci sarebbero due dati: "Negli Stati Uniti, troppa gente ha voluto comprare case senza sapere come pagare il debito. Nello stesso tempo troppe banche hanno prestato denaro senza garanzie né risorse adeguate a reggere i rischiosi subprime, allo scopo di gonfiare i bilanci e insieme i guadagni o benefici manageriali". "Si tratta di frenesie individuali e collettive, sulle quali ogni spiegazione investe complesse materie patologiche più che logiche. Non è tutto. Disparati espedienti e intricati artifici tecnici hanno consentito gravi abusi contro i risparmiatori, malgrado la pretesa trasparenza del sistema su depositi e investimenti".

Per lo meno Ronchey è riuscito a concepire anche le responsabilità collettive, senza cadere nell'individualismo estremo di Ostellino. Nel contempo, però, egli ha introdotto di soppiatto la questione morale citando gli "abusi", cosa che del resto ha attribuito a frenesie patologiche individuali, senza quindi sbilanciarsi su questioni etiche.

Per lo sviluppo di argomentazioni di carattere etico occorre, perciò, guardare ai maggiori esperti in materia: la chiesa di Roma e i suoi affiliati, ossia il versante opposto e antagonista del pluralismo relativistico. Da questo versante si può osservare una difesa indiretta del sistema economico capitalistico attraverso la denuncia delle responsabilità morali individuali, poste assolutamente in primo piano.

Nel "Corriere della sera" del 7 ottobre, non poteva mancare la voce di Benedetto XVI, che ha preso i due classici piccioni: da un lato ha cercato di consolare gli afflitti (dalle perdite in borsa), dall'altro ha ribadito il dogma della vera realtà, quella divina. Qualcuno potrebbe satireggiare sulla nonchalance pontificia nei confronti della evanescenza del denaro, ma l'argomento di papa Ratzinger non manca di intelligenza: innanzi tutto, quando afferma che "sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili, tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi", non parla solo di denaro, ma di vanità individuali che realmente sono evanescenti, perché soggette a circostanze casuali e perciò fugaci.

E come dargli torto quando conclude: "Apparentemente queste cose sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. E così tutte queste cose, che sembrano la vera realtà sulla quale contare, sono realtà di second'ordine. Chi costruisce la sua vita su questa realtà, sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare, costruisce sulla sabbia".

Occorre intendere bene il messaggio e il suo destinatario. Il Papa si rivolge ai singoli individui, perciò ha perfettamente ragione a sostenere che la realtà del successo individuale, del possesso individuale del denaro, ecc. è una realtà di second'ordine, in quanto realtà contingente ed effimera. La vera realtà è quella necessaria che riguarda i complessi: la specie umana, i popoli, le classi sociali. Fin qui il suo ragionamento ha quindi un valore che va oltre la dottrina cattolica, ma nel momento in cui afferma: "Solo la parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà", egli dimentica, nella sua dottrina, che "tutta la realtà'", in riferimento alle borse e all'economia mondiale, è il capitalismo senescente, realtà inderogabile di tutta la specie umana.

Allora, la sua conclusione non è conseguente: infatti non consegue dalla giusta considerazione della realtà contingente individuale che "dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo", che "realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto". In questo modo egli contrappone, alla debole realtà dell'individuo effimero, l'irrealtà di una superiore esistenza sovrumana, non la forte realtà della specie umana divisa, dominata dalla "globalizzazione", di cui il lunedì nero del 6 ottobre ha rappresentato soltanto un episodio.

Ancora una volta è l'individualismo cristiano che impedisce la consapevolezza religiosa dell'importanza della specie umana come complesso necessario, e nel contempo rende il cristianesimo non antagonista ma funzionale agli interessi del capitale complessivo. Se si concepisce come protagonista l'individuo è inevitabile cadere nella responsabilità morale individuale, perciò anche in economia conterà il comportamento individuale. La pensa così, infatti, il banchiere cattolico, Roberto Mazzotta, secondo il quale "Se nella ricerca delle cause [della crisi] ci fermiamo ai dettagli tecnici dimentichiamo la cosa più importante: l'economia è nelle mani dell'uomo e della sua autonomia".

Mazzotta non concepisce l'"uomo" alla maniera di Hegel come genere umano, lo concepisce come singolo individuo. Alla domanda dell'intervistatore: "Le parole del Papa ricordano il Quòlet, "tutto è vanità". Lei avverte mai la precarietà di ciò che fa?" egli risponde: "Certo, ma ogni cosa è precaria! L'errore del positivismo e del marxismo è stato cercare le certezze nelle strutture. E invece le soluzioni vanno cercate negli uomini", intendendo i singoli uomini, tanto è vero che conclude: "Le regole non bastano: l'economia è nelle mani delle singole persone".

Qui non si tratta soltanto di un'ideologia, qui si tratta di un vero e proprio errore metodologico. Se veramente l'economia fosse nelle mani dei singoli individui, non esisterebbero leggi di necessità ma solo il caos senza regole di alcun genere. Non è vero che ogni cosa è precaria; lo è solo la singola cosa, ma una cosa come il capitale complessivo ha le sue leggi, per quanto ciecamente necessarie. E se vogliamo certezze  dobbiamo cercarle proprio nelle "strutture" della produzione (del commercio, della finanza, ecc.) capitalistica.

E' il capitalismo che molto naturalmente produce crisi periodiche, dando ragione a Marx. Per questo motivo, al timore di una grande crisi o anche avendo interesse a favorire una crisi congiunturale di borsa, si deve subito correre ai ripari contrapponendo a Marx un individualismo estremo, che, paradossalmente,  accomuna il pluralismo relativistico di Ostellino al dogmatismo teologico di Benedetto XVI. In definitiva, il tentativo di attribuire la crisi delle borse del 6 ottobre a responsabilità individuali risponde a un'esigenza ideologica e sociale, che fornisce un'ulteriore prova dello scadimento intellettuale dell'Occidente "globalizzato".
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