domenica 21 agosto 2011

Deja vu: crollo delle borse II

Il significato del lunedì nero (scritto nel 2008)


Occorreranno analisi più serie di quelle che a caldo sono state fatte dai quotidiani, persino da quelli economici come "Il Sole 24 ore". Per ora, può essere utile una digressione: all'epoca dell'11 Settembre era già in atto un rallentamento della "economia reale" nei paesi dell'Occidente, ma anche in Cina. Gli Stati Uniti reagirono con la strategia dell'amministrazione Bush J., fondata sul petrolio e sulle armi. Strategia cosi mal compresa che, ad esempio, "Limes" ipotizzò che l'intervento americano in Iraq mirasse a ridurre il prezzo del petrolio a 15 dollari il barile. La realtà smentì questa ipotesi capovolgendola in una misura inaudita, quintuplicando il prezzo del petrolio in un paio di anni, e nel contempo, per specularità, svalutando pesantemente il valore del dollaro, riducendo così il debito USA.

Washington, all'epoca, elaborò una strategia di contenimento dello sviluppo asiatico con il rincaro petrolifero e di riaffermazione della propria egemonia mondiale con minacce non troppo velate alle potenze che in prospettiva avrebbero potuto intaccarla, e cioè la Cina e la Ue. Lo scopo principale della nuova strategia era ribadire il ruolo egemonico degli USA, ruolo indebolito dai successi monetari e commerciali, rispettivamente, europei e cinesi. Gli strumenti per realizzare questo obiettivo furono la politica monetaria, la politica petrolifera e la politica delle armi. Ma i risultati sono stati scarsi. Di conseguenza, negli Stati Uniti, è in atto un cambiamento di rotta, proprio nel momento in cui un nuovo rallentamento economico si affaccia sulla scena mondiale.

Questa volta, invece di un tragico e coreografico 11 settembre, si assiste a un crack speculativo delle borse che richiama la Grande Crisi del '29, mentre la specularità del prezzo dollaro-petrolio inverte il suo corso: in poche settimane il prezzo del petrolio si è dimezzato e il prezzo del dollaro è salito decisamente. C'è quindi da aspettarsi che gli USA ridimensionino la loro strategia militare riducendo le spese e il proprio deficit, puntando anche ad attrarre capitale estero.

C'è inoltre un aspetto del quale si parla poco o niente: si tratta del lucroso e duraturo affare, gestito dal FMI e dalla BM, relativo all'indebitamento estero (per decenni inestinguibile) dei PVS. Questo affare è stato oggettivamente ridimensionato dalla crescita del petrodollaro, in parte affluito ai PVS indebitati, cominciando a sottrarli al meccanismo che li subordinava da decenni all'usura delle banche occidentali. Il conseguente ridimensionamento del debito dei PVS comincia a sottrarre una fonte di sovrapprofitto fondamentale per la sopravvivenza del capitalismo senescente. L'altra fonte, quella del "credito al consumo", a sua volta, è stata ridimensionata dal calo dello shopping in Occidente, e d'altra parte l'Asia non riesce ancora a imporlo sia per la forte tendenza al risparmio del nascente ceto medio sia per lo scarso peso del suo mercato interno in formazione. All'Occidente non restava, perciò, che trovare una "pezza" per conto proprio.

A nostro avviso, la crisi delle borse è un tentativo di ridurre il risparmio del "ceto medio" dell'Occidente affinché si affidi ciecamente al sistema usurario del "credito al consumo", così da ridare un pò di ossigeno a una "economia reale" che vede assottigliarsi il saggio generale del profitto. Ma, come l'11 settembre è stato la pretestuosa prima mossa di una nuova strategia politica petrolifera-militare, questa crisi delle borse è solo la prima mossa di una nuova strategia politica economica, che attualmente è solo in nuce. E l'appello continuo alle "nuove regole" è sintomatico e prelude a nuove politiche dai risultati imprevedibili.

Che la recente crisi sia, almeno in parte, "concertata" lo dimostra la circostanza del gioco al ribasso con continui "rimbalzi". A questo gioco, ovviamente, non possono partecipare i piccoli risparmiatori, i piccoli possessori di titoli in borsa, i quali non conoscendone il funzionamento finiscono col vendere troppo tardi, quando è il momento di comprare; e non appena cominciano a comprare è il momento, per chi conduce il gioco, di vendere giocando al ribasso. Ma lo dimostra anche la scarsità di analisi serie di questa crisi, completamente annullate da campagne di stampa che confondono le idee e spingono i risparmiatori a rifugiarsi nella droga del credito al consumo, consolandosi, anzi felicitandosi con se stessi, di aver salvato almeno i propri depositi!

Dicevamo che questo è solo l'inizio: occorrerà del tempo prima di capire come evolveranno le cose. Al momento, ci possiamo limitare solo a stabilire alcune linee di tendenza: la prima, che la vittoria di Obama alle presidenziali porterà a un ridimensionamento della dispendiosa politica militare in M.O. e al tentativo di rimettere in sesto il bilancio*, cominciando con la svalutazione del dollaro e la concomitante rivalutazione del petrolio per non favorire troppo i concorrenti asiatici ed europei; la seconda, che, inevitabilmente, in Occidente, si accentuerà la tendenza al ridimensionamento della massa di shopper**; la terza, che, altrettanto inevitabilmente, aumenterà il numero di shopper in Cina, in India e nel resto dell'Asia***, in concomitanza con la crescita del mercato interno asiatico. Più difficile prevedere quali conseguenze si avranno dal punto di vista geostrategico.

C'è però un dato che deve fare riflettere: la crescita del prodotto lordo mondiale nel 2008 è stata del +3,9%. E' una crescita elevata: significa un raddoppio in meno di 18 anni; ma a questo valore contribuisce soprattutto l'Asia, con la Cina che supera ampiamente il +10% di crescita del prodotto interno lordo e l'India che la tallona. Ora, per il 2009, si prevede un +3%. Si tratta di un rallentamento attribuibile al calo dello shopping per il ridimensionamento della massa occidentale di shopper, ma non di una recessione mondiale. La Cina contribuirà al rallentamento con la perdita di 2 o 3 punti in percentuale del suo PIL.

Il capitalismo senescente, per sopravvivere, ha bisogno di un eccesso di commercio, tanto meglio se attuato col credito al consumo che assicura un extraprofitto con il suo tasso usuraio del 15%. Se l'Occidente sta provvedendo in questa direzione con la crisi delle borse, la Cina che fa? I nostri quotidiani sono molto parchi di notizie. Su "Sole 24 Ore" del 7 ottobre troviamo un articolo di L. Vinciguerra che riporta laconicamente questo dato: la borsa cinese avrebbe perso due terzi del suo valore dall'autunno del 2007, mandando in fumo 1.700 miliardi di dollari! "Resta da vedere quali saranno i risultati" commenta l'autore. Invece, occorrerebbe capire come ciò sia potuto accadere, e che cosa significhi per il futuro economico cinese, ma sulla Cina esiste da secoli un alone di mistero.

Da "La Repubblica" del 13 ottobre, possiamo apprendere che in Cina è in atto una riforma agraria che interesserà 800 milioni di contadini. Secondo "Nuova Cina", la riforma raddoppierà in 12 anni il loro reddito. Già nel 2007 il reddito delle zone rurali è cresciuto del 9,5% e per il 2008 si prevede un aumento del 6%. Per comprendere questa riforma, occorre partire da un fatto: per "costituzione" è proibita la proprietà privata della terra; ai contadini è concesso soltanto il contratto trentennale di gestione di piccoli appezzamenti. Con la riforma, però, "I contadini saranno autorizzati a trasferire ad altri con vari strumenti i contratti di gestione del territorio". In questo modo, sebbene la proprietà rimanga formalmente allo Stato, si rende possibile superare il frazionamento della terra concentrandola in mano di singoli individui e aziende, aumentando così la produttività agricola.

"Secondo i funzionari, i cambiamenti consentiranno ai contadini di noleggiare o vendere i propri contratti di sfruttamento agricolo trentennali a singoli individui o aziende"
. In questo modo, al posto di miserevoli appezzamenti improduttivi, sorgeranno aziende agricole più grandi e produttive, che potranno assumere lavoratori salariati, aumentando la produzione e i redditi dell'agricoltura cinese, finalizzata all'incremento del mercato interno. Perché il problema cinese è oggi proprio il mercato interno. Il rallentamento della economia occidentale e la diminuzione della sua massa di shopper costringe il governo cinese a fare i conti con la riduzione dell'esportazione di beni di consumo come il tessile: si tratta perciò di riconvertire parte di questa produzione verso il mercato interno. Per questo scopo occorre aumentare il reddito procapite cinese e aumentare l'interscambio tra industria e agricoltura. La nuova riforma agricola va in questa direzione, e dovrebbe risolvere il problema, anche considerando che la Cina del 2000 non fa nulla a caso e ottiene spesso i risultati voluti.

Ma se la Cina riuscirà in questo, aumentando il suo mercato interno (mentre aumenta anche il mercato interno dell'India e dell'Asia nel suo complesso), diminuirà la sua rilevanza "globale" per l'Occidente; e tanto più diminuirà quanto più si rivolgerà al mercato asiatico, spinta anche da eventuali, future barriere doganali erette da una Unione europea economicamente depressa e dalla barriera eretta da un dollaro prima o poi rivalutato. Un simile scenario avrebbe riperscussioni sulla "globalizzazione" del mercato mondiale, ed è ipotizzabile una nuova situazione, già vista nella storia dopo la crisi del '29, la formazione di mercati parzialmente separati, quello occidentale dominato dall'America e quello orientale dominato dalla Cina, con esiti veramente imprevedibili. 

* Oggi, agosto 2011, questo tentativo può dirsi fallito, e si comincia a parlare apertamente di rischio reale di "default".

** E' ciò che sta accadendo, non solo negli USA ma anche in Europa (e in Italia il cui ceto medio recalcitra smarrito).

*** La conferma va oltre ogni aspettativa.
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