Il dispendioso processo di formazione delle proteine funzionali, che segue la sintesi ribosomica delle catene polipeptidiche
La sperimentazione mostra agli occhi dei biologi molecolari che il prodotto appena sintetizzato dai ribosomi non è funzionale: le proteine funzionali derivano dal successivo processo di variazione e di combinazione delle catene polipeptidiche prodotte nel processo di sintesi. Come interpretare questa osservazione empirica? La tendenza generale è di darne una spiegazione nei termini della teoria del codice, che, nella sua formulazione originaria, fa dipendere la produzione delle proteine dal codice genetico, ossia da una specie di programma. Così appare che la produzione delle proteine sia programmata per una funzione predeterminata una volta per tutte.
Questa visione deterministica-meccanicistica non riflette però la realtà che emerge, come la punta di un iceberg, nelle sperimentazioni dei biologi molecolari. Ogni singola sintesi fornisce come risultato una catena polipeptidica sulla cui sorte nessuno può scommettere, perché questa catena subirà ogni sorta di variazione. Scrive Stephen L. Wolfe ("Introduzione alla biologia cellulare e molecolare" 1996): "Quando la catena polipeptidica è completa può essere variamente modificata". La modificazione riguarda singoli aminoacidi, e si tratta di modificazioni chimiche, come acetilazione, metilazione, ecc. "Come risultato di queste modificazioni, nelle proteine naturali si possono trovare 140 aminoacidi diversi". Passare dai 20 aminoacidi, per così dire ufficiali, a 140 effettivi, non è cosa da poco, e, soprattutto, non è cosa spiegabile in termini di codice e programma.
La sperimentazione mostra agli occhi dei biologi molecolari che il prodotto appena sintetizzato dai ribosomi non è funzionale: le proteine funzionali derivano dal successivo processo di variazione e di combinazione delle catene polipeptidiche prodotte nel processo di sintesi. Come interpretare questa osservazione empirica? La tendenza generale è di darne una spiegazione nei termini della teoria del codice, che, nella sua formulazione originaria, fa dipendere la produzione delle proteine dal codice genetico, ossia da una specie di programma. Così appare che la produzione delle proteine sia programmata per una funzione predeterminata una volta per tutte.
Questa visione deterministica-meccanicistica non riflette però la realtà che emerge, come la punta di un iceberg, nelle sperimentazioni dei biologi molecolari. Ogni singola sintesi fornisce come risultato una catena polipeptidica sulla cui sorte nessuno può scommettere, perché questa catena subirà ogni sorta di variazione. Scrive Stephen L. Wolfe ("Introduzione alla biologia cellulare e molecolare" 1996): "Quando la catena polipeptidica è completa può essere variamente modificata". La modificazione riguarda singoli aminoacidi, e si tratta di modificazioni chimiche, come acetilazione, metilazione, ecc. "Come risultato di queste modificazioni, nelle proteine naturali si possono trovare 140 aminoacidi diversi". Passare dai 20 aminoacidi, per così dire ufficiali, a 140 effettivi, non è cosa da poco, e, soprattutto, non è cosa spiegabile in termini di codice e programma.
"Altre modificazioni possono riguardare il distacco, per via enzimatica, di una gran parte della catena polipeptidica come tappa nella conversione della proteina alla sua forma finale biologicamente attiva. Per esempio, la tripsina, un enzima digestivo, è trasformato nella sua forma attiva a partire da una molecola precursore più grande, il tripsinogeno, in seguito al distacco per via enzimatica di una parte della catena polipeptidica originaria. Alcune proteine sono modificate dall'aggiunta di ioni metallici o dalla combinazione con gruppi complessi che contengono lipidi o carboidrati".
Come si vede, anche per le proteine si è dovuto far intervenire il concetto di "precursore", per aggiustare ad hoc il fatto, ormai appurato, che il prodotto finale del processo di sintesi non è ancora la "forma finale biologicamente attiva": in altre parole, si tratta ancora di un semilavorato. Ma chi stabilisce la fattura finale del prodotto funzionale? Non certo il DNA, ormai privato di ogni potere direzionale, di ogni potere decisionale, tanto che, ragionando nei termini ufficiali, potremmo anche chiederci: ma che fine hanno fatto le sue informazioni? Chi ne ha tenuto conto nel bailamme generale? Il DNA è certamente un punto di partenza, che abbiamo identificato come una delle materie prime che partecipano alla "lavorazione", ma poi i reciproci rapporti tra DNA, RNA, aminoacidi, enzimi, ribosomi, ecc. rappresentano un gigantesco groviglio ancora da dipanare.
Abbiamo appena visto che ogni proteina codificata (o più correttamente, ogni catena polipeptidica sintetizzata) è soggetta a modificazioni di ogni genere. Vediamo altri autori, tra cui Watson ("Biologia molecolare della cellula" 1985), ai quali ci rivolgeremo spesso in questo paragrafo: "Molte proteine, se non la maggior parte, subiscono modificazioni di tipo covalente dopo che sono state rilasciate dal ribosoma. Sono note più di 100 diverse modificazioni di questo tipo nelle catene laterali di aminoacidi. Spesso si tratta di modificazioni reversibili che regolano (!) l'attività biologica della proteina". "Altre modificazioni covalenti delle proteine che avvengono nel citosol sono permanenti e necessarie per l'attività della proteina". "Vi sono numerose altre modificazioni irreversibili la cui funzione è meno chiara". Inoltre, "molte di queste proteine sono sintetizzate inizialmente come molecole più grandi, poi intervengono delle proteasi specifiche che le spezzano o le accorciano per ottenere la forma attiva". "Alcune di queste modificazioni di tipo covalente devono essere considerate regolatrici (!)".
Dai passi citati emerge un quadro talmente complesso di variazioni molecolari, puramente chimiche, che il preteso meccanismo fine e preciso, che avrebbe dovuto determinare la funzione delle proteine secondo un codice genetico, appare un modello veramente angusto e miserevole. Evidente è, invece, il dispendio, che, come ora vedremo, assume il volto della degradazione delle proteine. "La concentrazione di una proteina nella cellula è determinata dall'equilibrio fra la sua velocità di sintesi e la sua velocità di degradazione. Ne risulta un costante ricambio (turnover) delle proteine. La velocità di sintesi di una proteina di solito è controllata (!) regolando (!) la quantità del corrispondente mRNA disponibile per la traduzione. Inoltre, la cellula può controllare (!) la concentrazione di una proteina regolando (!) la velocità con cui la degrada".
Quante volte dovremmo ripeterci, per sottolineare il fatto che i biologi molecolari reagiscono all'oggettivo dispendio immaginando controlli e regolazioni? E quante volte dovremmo ripetere la domanda: ma chi regola i controlli, chi controlla le regolazioni? Insomma, se ci fossero controlli e regolazioni, ci dovrebbe essere chi dirige. E finora è risultato chiaro che nulla e nessuno dirige i processi biomolecolari delle cellule. Non resta che la dialettica caso-necessità, secondo la quale la necessità dei processi biomolecolari trae alimento soltanto dalla casualità relativa ai singoli elementi in gioco, sufficientemente numerosi, però, da produrre frequenze statistiche funzionali, e sono queste ultime a rappresentare l'unica forma di necessità alla quale la scienza può pervenire: la necessità complessiva.
Invece, i biologi molecolari, dominati dal determinismo riduzionistico, quando non trovano la necessità a livello dei singoli elementi, possono anche cadere nell'errore del vecchio determinismo: ossia concepire come casuale il processo complessivo. E' ciò che è capitato anche ai vari autori, tra cui Watson, che stiamo considerando, i quali affermano: "La degradazione delle proteine appare come un processo casuale dato che in un determinato intervallo di tempo una molecola proteica "vecchia" non ha maggiori probabilità di essere degradata di quanto ne abbia una molecola "nuova"."
La degradazione delle proteine è un processo che non distingue tra la proteina prodotta ex novo e quella preesistente. Di conseguenza è un processo non specifico o, come si dice volgarmente, non deterministico. Ora, se "In una cellula le diverse specie proteiche sono suscettibili di degradazione in modo diverso e caratteristico", e perciò "il loro ricambio avviene con ritmi molto differenti", ciò significa solo che non esiste determinazione, o specificità o regolazione fine e se c'è qualcosa di caratteristico, ciò può essere soltanto una determinata frequenza statistica. Se si afferma che ogni singola proteina è specifica nella sua sintesi, dovrebbe esserlo anche nella sua degradazione: così ragiona il determinista riduzionista. Se, invece, osserviamo empiricamente una frequenza di degradazione diversa e caratteristica di tipi diversi di proteine, ciò riguarda soltanto le proteine come complessi.
L'errore dei sostenitori della "specificità per riconoscimento", della "regolazione fine", ecc. è che essi le pretendono per le singole unità, sperando che la necessità del complesso ne derivi come conseguenza. Invece, nei processi biologici, come anche in quelli fisici e chimici, la necessità spetta soltanto ai complessi, e consiste in frequenze statistiche sorte sulla base della casualità relativa alle singole unità. Non comprendendo il rapporto esistente tra la probabilità singola e la frequenza necessaria complessiva, i biologi molecolari non possono comprendere neppure quei dati statistici che ogni tanto sono costretti a segnalare, come nel seguente passo: "Una 'tipica' molecola proteica viene degradata, in media, ogni due giorni dopo che è stata sintetizzata, ma il tempo medio di degradazione per singole proteine varia da diversi minuti a diversi mesi o anche anni".
Per comprendere il processo di degradazione occorre distinguere: i diversi tipi o specie di proteine hanno diverse caratteristiche necessarie che le derivano dalla sorte casuale delle singole unità di appartenenza. Ogni specie di proteina presenterà determinate frequenze statistiche (ad esempio quelle relative agli anticorpi dei linfociti o all'emoglobina degli eritrociti), anche in relazione alla loro specifica degradazione, dalle quali si discosteranno le singole unità, che potranno durare più o meno della media, o anche essere eliminate subito dopo la sintesi. Ma ciascun tipo o specie appartiene al genere universale delle proteine. Così, per comprendere un processo come quello della degradazione, importante è sia il punto di vista generale, universale, sia quello particolare, specifico, ma non quello singolare aspecifico perchè casuale.
Spesso non si è in grado di sapere che cosa abbia in mente l'autore di turno, perché a nessun autore sembra interessare la distinzione tra ciò che riguarda la proteina come genere universale, ciò che la riguarda come tipo particolare, e ciò che riguarda il singolo esemplare di proteina di questo o quel tipo. Nel passo che segue, sembra però chiaro che gli autori hanno in mente il genere universale delle proteine: "Le proteine, per lo più, sono strutture compatte che presentano una certa intrinseca resistenza all'attacco degli enzimi proteolitici e quindi alla degradazione". Dunque, la degradazione è qualcosa che riguarda ogni proteina, nel senso che, nonostante la sua "resistenza", l'esistenza di ogni singolo esemplare di ogni tipo di proteina è sempre "minacciato" dall'attacco di enzimi proteolitici che la degradano. Il fenomeno per cui particolari tipi di proteine (enzimi) provocano la degradazione di qualsiasi proteina è dunque comune e continuo, e si caratterizza come dispendio.
Poiché, del resto, la sintesi delle proteine è ugualmente continua e rapida, ne deriva che la combinazione di sintesi e degradazione, garantendo il "turn over" (omeostasi), garantisce una relativa stabilità del numero complessivo, paragonabile, ad esempio, alla stabilità della popolazione umana, dovuta al bilanciamento delle nascite e delle morti. Solo che nel caso delle proteine il turn over stabilizzante è incomparabilmente più dispendioso.
Se la degradazione riguarda tutte le proteine (prima o poi, in gran numero e in tempi relativamente brevi), l'unica interpretazione che se ne può dare è che la sorte del singolo esemplare di proteina è casuale, mentre necessaria è soltanto la stabilità complessiva. Perciò sarà casuale che la degradazione colpisca singole unità di proteine "difettose" o, invece, "normali". Anzi, ha poco senso distinguere i singoli esemplari in "buoni" e "cattivi". Al contrario, i biologi molecolari immaginano che "Una funzione importante della degradazione è quella di liberare la cellula dalle proteine difettose che possono essere codificate da geni difettosi, o essere il risultato di un errore di sintesi o, ancora, derivare dalla denaturazione spontanea (!) di polipeptidi che in precedenza erano funzionali".
Ancor peggio, è immaginare un meccanismo perfettamente controllato, come nel passo che segue: "In questo processo finemente controllato (sic!), l'energia dell'idrolisi dell'ATP è utilizzata per formare un legame covalente tra un polipeptide particolare e la proteina che deve (!) essere degradata. Questo polipeptide, detto ubiquitina per la sua diffusa presenza in organismi diversi fra loro quali i batteri e l'uomo, evidentemente (sic!) "segna" (!) la proteina che ha legato perché rapidamente sia degradata".
Ubique gradus deiectio! Ovunque degradazione. Ma l'ubiquitina, che può essere intesa come enzima responsabile di una degradazione continua e casuale -chimicamente comprensibile- di ciascuna singola molecola proteica, dalla quale si può partire per comprendere il cieco risultato statistico, viene invece immaginata come proteina regolatrice, che marca quella singola determinata proteina che "deve" (non si sa per quale motivo e per ordine di chi) essere degradata. Ma poi, rendendosi conto che la degradazione non riguarda soltanto proteine difettose, bensì contribuisce a variare la concentrazione dei complessi di proteine, enzimi, ecc. funzionali, ci si limita a dire: "Non è ancora chiaro se il meccanismo che degrada queste proteine sia diverso da quello che degrada le proteine difettose".
Non può essere diverso il processo che degrada proteine "funzionali" da quelle "difettose", per il semplice motivo che non esiste la singola proteina difettosa, ma esistono rapporti statistici relativi a numeri abbastanza grandi di proteine dello stesso tipo, e sono questi rapporti che possono essere difettosi e dar luogo a patologie varie. La degradazione delle proteine è un processo che può essere compreso solo come risultato di grandi numeri di elementi che, presi di per sé, sono casuali. Quindi, solo le frequenze statistiche hanno un significato di necessità. Ma la degrazione è solo uno dei momenti del più generale processo vitale delle proteine. Le proteine, dalla loro sintesi alla loro trasformazione, alla loro degradazione, ai loro adattamenti, ecc. rappresentano l'oggetto principale della cellula. Si può dire che l'esistenza stessa della cellula è garantito da molteplici diverse specie di proteine.
Quando prenderemo in considerazione le diverse tipologie di cellule, vedremo che si tratterà soprattutto di processi relativi a queste diverse specie di proteine; perciò, in questo capitolo ci limitiamo solo a questioni generali che riguardano il genere delle proteine: abbiamo visto la loro sintesi e la loro dispendiosa trasformazione. Nei prossimi paragrafi tratteremo due importanti questioni generali: La prima, che riguarda la identificazione delle proteine nella sperimentazione; la seconda, che riguarda la rapidità delle reazioni biochimiche provocata dagli enzimi.
Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume terzo Biologia" (1993-2002) Inedito