lunedì 9 maggio 2011

L'origine della parola "gene": un oggetto arcano

Che cosa rappresenta il vocabolo "gene"? Un concetto, un rapporto, o una cosa? Allo stato attuale, con questo termine, si intende una cosa, ossia un segmento di DNA, anche se nessuno è in grado di determinare singoli geni come cose con una precisa e definita posizione. I geni vennero concepiti dalla genetica molecolare come cose, componenti una cosa composta, il DNA. Il DNA è però, realmente, una cosa: una macromolecola, i cui costituenti sono i nucleotidi. Quindi, come si è arrivati a concepire un'altra cosa interna al DNA, chiamata "gene"?

Il punto di partenza fu il concetto darwiniano di variazione dei caratteri trasmessi ereditariamente. Questo concetto rifletteva semplicemente l'osservazione empirica della ereditarietà delle variazioni. Alla fine dell'Ottocento ci si chiese metafisicamente: "l'ereditarietà opera in maniera continua o discontinua?" La risposta non poteva che essere altrettanto metafisica; così si contrapposero due correnti, una che rispose: "continua", l'altra che rispose: "discontinua". E da qui sono usciti due locuzioni: "variazioni continue" e "variazioni discontinue".

La scoperta delle leggi Mendel portò acqua al mulino delle variazioni discontinue o, come si usa nel linguaggio fisico, discrete. Per spiegare i risultati dei suoi esperimenti Mendel suppose che ogni genitore contenesse, per ogni carattere ereditario, due "fattori" che chiamò fattore dominante e fattore recessivo. Ora, se le leggi di Mendel hanno un valore relativo nell'ambito di specifiche osservazioni empiriche, il termine fattore rappresenta solo una convenzione deterministica. Ossia, per descrivere le osservazioni di Mendel bastano semplici lettere, tipo Aa, Ss. Se poi chiamiamo A e S dominanti e a e s recessivi, rendiamo conto della prevalenza dei caratteri corrispondenti ad A e S rispetto ai caratteri corrispondenti ad a e s. E con ciò rendiamo conto di ciò che si vede. Ma, se li chiamiamo fattori, alludiamo a qualcosa che dovrebbe determinare questa diversità di espressione dei caratteri, di cui non sappiamo nulla.

Poiché questi caratteri, nella progenie, si presentano in maniera discontinua, la teoria di Mendel fu interpretata come un meccanismo di natura "particellare", "discreta", favorevole alla corrente che sosteneva la "variabilità discontinua". Ad esempio, il genetista Morgan, inizialmente ostile alla teoria mendeliana (ma che cambiò opinione dopo le sue ricerche sulla drosophila), giunse fino ad affermare che "L'attuale interpretazione e descrizione mendeliana rimanda inspiegabilmente alla "dottrina delle particelle" ..."

Come scrive Garland Allen in "La biologia contemporanea" (1985), "Le particelle ereditarie, preformate furono designate con una varietà di termini, "fattori" , "geni" , "caratteri elementari" e simili. Ciò che però sfuggì a molti di coloro che, tra il 1900 e il 1910, se ne occuparono, fu la distinzione basilare tra la particella ereditaria in sé e il carattere, da essa veicolato, che si manifesterebbe nell'individuo adulto".

Così, la distinzione tra il fatto osservato, il carattere (ad esempio l'altezza, il colore degli occhi, ecc.), e la sua causa, la particella ereditaria, diventò fondamentale. Dobbiamo al botanico danese W. Johannsen questa separazione tra "causa" ed "effetto". Egli infatti "sottolineò che gli organismi non ereditavano "caratteri" all'atto della fecondazione, ma soltanto componenti genetici specifici contenenti "in potenza" ciascun carattere". E ancora, continua Allen, "La distinzione introdotta da Johannsen portò all'abbandono della identificazione delle particelle ereditarie con il carattere adulto pienamente sviluppato e favorì una nuova concezione secondo la quale esse erano unità preposte al controllo dei processi funzionali. Se nel gene (Johannsen introdusse il termine nel 1909) si riconosceva solo il produttore potenziale del carattere adulto, si poneva immediatamente la questione di come tale carattere venisse realizzato".

Il termine "gene" è stato quindi introdotto per distinguere il "fattore", invisibile del carattere visibile, dal carattere stesso. E' stato introdotto, come è accaduto sempre nelle scienze umane deterministe, senza alcun conoscenza del fattore stesso, ma immaginando la sua esistenza come "causa" ignota di un "effetto" noto: in questo caso, il carattere.

Anni prima, nel 1902, W. Sutton aveva riconosciuto nella separazione dei cromosomi omologhi il supporto materiale per i "fattori" mendeliani; si ipotizzò, così, che i cromosomi o frazioni di cromosoma fossero i fattori di trasmissione del patrimonio ereditario. Nei decenni successivi furono le proteine ad essere considerate adatte alla trasmissione ereditaria, fino a quando, a cominciare dagli anni '40, entrarono in campo gli acidi nucleici.

Cromosomi eucariotici, procarioti e virus mostrarono particolari combinazioni di proteine e acidi nucleici (DNA e RNA). Perciò la tendenza spontanea alle contrapposizioni diametrali condusse, ancora una volta, una categoria di scienziati, questa volta i biologi molecolari, a contrapporsi, prendendo partito o per le proteine o per gli acidi nucleici. Ciò che invece non produsse contrapposizioni fu il termine "gene", accettato da tutti. L'accettazione si spiega con il fatto che con questo termine si designò, per così dire, una scatola vuota che poteva essere riempita. L'unica cosa certa: il gene era un fattore di trasmissione ereditaria. In che cosa poi consistesse, era tutto da decidere. Dovettero passare diversi decenni per poter riempire la scatola vuota, ovvero per poter definire il gene.

Vediamo alcune definizioni:

"Determinante genetico, unità di base del genoma, che può essere ritenuto responsabile di un carattere ereditario"
(Medawar, "Introduzione alla biologia", 1976)

"Un gene può essere definito come una sequenza che codifica per un prodotto funzionale ..."
(Dulbecco e altri, "Microbiologia", 1993)

"Un segmento di cromosoma con una funzione determinabile, usato come sinonimo per locus o cistrone, e a volte per allele" (Bodmer & Cavalli Sforza, "Genetica Evoluzione Uomo", 1977) 

"probabilmente parecchi nucleosomi insieme costituiscono l'unità genetica fondamentale o gene"
(Steven Rose, "Chimica della vita", 1977) 

C'è ancora oggi una certa ritrosia a definire il "gene", nonostante che nella sfera della trasmissione ereditaria sia entrata la biochimica e l'informatica, fornendo molti argomenti; ma questi argomenti sono utilizzati in abbondanza solo quando si parla del genoma e del codice genetico: a questo livello, si ritiene certa una precisa determinazione, regolazione, controllo dei processi di trasmissione ereditaria; ma quando si passa a definire il singolo gene, in teoria, e a ricercarlo nella pratica sperimentale, cominciano le dolenti note: le incertezze, i balbettii. E' ciò che potremo appurare nei prossimi paragrafi.

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Tratto da "Caso e necessità - L'enigma svelato - Terzo volume Biologia" (1993-2002) Inedito

Post Scriptum 2012
. Poichè oggi, messa da parte la teoria, i biologi molecolari sono in piena attività sperimentale in tutte le direzioni, e parlano con molta più sicurezza dell'esistenza e dell'azione dei singoli geni, l'autore di questo blog ritiene opportuno, dopo questa prima serie di post, riprendere in mano lo studio della genetica sui trattati più recenti per aggiornarsi e scoprire quali importanti novità (non solo pratiche ma anche teoriche) siano uscite fuori.

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