lunedì 13 giugno 2011

La "scienza divina e veneranda" di Aristotele

Fin dalle sue origini, la conoscenza umana si è trovata impelagata in una difficile contraddizione: quella tra la dipendenza reale da poteri superiori e l'aspirazione alla indipendenza. Per Aristotele ("Metafisica", libro I) la filosofia è una scienza disinteressata il cui solo scopo è "fuggire l'ignoranza". Una simile scienza, che esiste di per sé, è la sola libera e indipendente; ma la condizione dell'uomo non è libera, perciò come può permettersi una scienza libera e indipendente?

La sua risposta non risolve la contraddizione. Egli dice: "perciò giustamente si può ritenere che il possesso di essa è cosa sovrumana, giacché per molti aspetti la natura dell'uomo è schiava, epperò, secondo Simonide, soltanto un dio può avere tale privilegio, mentre l'uomo è in grado di ricevere soltanto quella scienza che gli è adeguata". Pur non essendo del tutto d'accordo con Simonide, però deve ammettere che la scienza libera è "la più divina e veneranda", e per due aspetti: "infatti una scienza è divina perché dio la possiede al massimo grado, sia perché essa stessa si occupa di cose divine. Ma essa sola possiede entrambe queste prerogative, giacché da una parte tutti credono che dio è una delle cause ed è un principio, dall'altra dio solamente, o almeno in sommo grado, può possedere una siffata scienza".

Per Aristotele, poiché dio è la causa prima o il principio primo di tutte le cose, "la Sapienza è una scienza la quale si occupa di cause certe e di princìpi certi". Ma se questa sapienza è divina, come può l'uomo permettersi una sapienza divina? Paradossalmente, se dio è principio o causa della natura, la sua situazione è paragonabile a quella dell'uomo: infatti, come l'uomo è causa efficiente e finale delle macchine, così dio è causa efficiente e finale della natura; come l'uomo conosce in sommo grado le macchine, così dio conosce in sommo grado la natura. Questa analogia, che troviamo sviluppata sin dal tempo antico, se da un lato era l'unico modo di collegare l'uomo al sovrumano, dall'altro lasciava scoperto l'uomo di fronte alla conoscenza della natura creata da dio: come poteva l'uomo conoscere qualcosa che era stata creata da una causa a lui tanto superiore? L'unica soluzione poteva consistere nel rimpicciolire l'opera di dio pensandola a immagine e somiglianza con l'opera dell'uomo: la natura come le macchine!

Come diretta conseguenza di questo procedimento di assimilazione della natura ai meccanismi prodotti dall'uomo, la conoscenza umana si è trovata doppiamente vincolata e dipendente: in primo luogo, dalle immaginazioni teologiche (che sono sempre dipese dalle convinzioni soggettive dei teologi su dio e sulle sue proprietà), in secondo luogo dal principio di causalità, attribuito da tutti a dio, ma derivato in realtà dalla pratica umana e poi esteso per analogia alla natura.

Sulla prima dipendenza, quella teologica, vedremo che il filosofo di Stagira la pone come principio assoluto e indiscutibile. Dobbiamo attendere Spinoza per ascoltare una voce critica, perciò rinviamo il discorso per riprenderlo quando esamineremo la concezione spinoziana sulla natura e su dio. In questo paragrafo affrontiamo la dipendenza del pensiero antico dal concetto di causalità, e, poiché, come cerchiamo di dimostrare, il concetto di causa ha preso il posto che oggettivamente spetta al caso, vediamo di approfondire questi due concetti antagonisti, seguendo le riflessioni di Aristotele nella "Metafisica".

Nel "Libro V", egli distingue quattro tipi di cause: I, nel senso che ad esempio il bronzo è la causa della statua (ciò da cui proviene l'oggetto); II, nel senso della forma e del modello: come è causa del diapason il rapporto di due a uno; III, nel senso generale che chi fa è causa del fatto, come il padre è causa del figlio; IV, nel senso di fine, ossia la causa finale: come la salute è la causa del passeggiare. Inoltre egli afferma che le cause sono molte e diverse, ma tutte rientrano nei quattro gruppi principali, ai quali aggiunge la causa accidentale: come, rispetto alla statua, Policleto solo per accidente è lo scultore. Ossia, solo per accidente, la causa fattuale di una determinata statua è un determinato scultore Policleto, mentre necessariamente la causa di una generica statua è un generico scultore.

Nella concezione di Aristotele la causa è tutto e appare in tutte le forme, persino distinta in causa in atto e causa in potenza. Ora, questa "causa" aristotelica non spiega niente, e come descrizione rappresenta un'inutile ripetizione: dire che Tizio è padre di Caio è una espressione sufficiente in se stessa, che non muta con l'aggiunta del termine causa; qui dire che Tizio è causa di Caio è solo un un inutile pleonasmo. Se poi consideriamo Caio come figlio che è stato partorito, allora le "cause" aumentano, perché madre e levatrice saranno altre due cause della nascita di Caio. Ma in questo modo non si può neppure descrivere un evento senza intralciare l'esposizione con l'aggiunta delle varie "cause", senza con ciò ottenere alcun aumento di conoscenza. D'altra parte, che Caio sia nato in tale giorno, concepito da tale padre e madre, partorito con l'aiuto di tale levatrice, ecc., tutto ciò appartiene alla sfera del caso. Qui la causa ha un posto che non è il suo.

Aristotele considera il caso in connessione al concetto di accidente, e fornisce di quest'ultimo due distinti significati a seconda della sua relazione col caso stesso. Riguardo al primo, si tratta di "ciò che appartiene ad un oggetto e che viene attribuito a questo in modo conforme a verità, ma, tuttavia, non per necessità né per lo più, come, ad esempio, nel caso che un uomo, mentre sta scavando una fossa per piantarvi un albero, vi trovi un tesoro. Trovare un tesoro è un fatto accidentale per colui che scava una fossa". Notiamo, fin d'ora, che, in questa definizione di accidente, l'aspetto rilevante è la rarità dell'evento che costituisce l'accidente stesso.

Riguardo al secondo significato di accidente, egli scrive: "poiché c'è qualcosa che è anche proprietà di un'altra e poiché alcune di queste proprietà sono presenti soltanto in un certo luogo e in un certo tempo, si chiamerà accidente qualsiasi proprietà che sia presente in un oggetto, senza che, però, la sua presenza faccia in modo che l'oggetto o il tempo o il luogo siano quello che sono ciascuno nella sua essenza. D'altra parte l'accidente non ha una causa determinata, ma ha come causa il fortuito, ossia l'indeterminato". E come esempio immagina uno che arriva a Egina non perché quella fosse la sua destinazione, ma perché una tempesta o la cattura da parte dei pirati ce l'ha condotto. Così "l'accidente si produce non in virtù di se stesso, bensì di un'altra cosa". E anche qui notiamo che l'accidente è qualcosa di raro ed eccezionale.

I due significati di accidente sono qualitativamente identici:  chi, scavando col fine di piantare un albero, trova un tesoro, e chi, prendendo una nave, si ritrova in un porto diverso dalla sua destinazione, subiscono qualcosa di identico: ossia un evento raro che non accade né per necessità né per lo più.

Ora, poiché la "causa" dell'evento accidentale è il caso, Aristotele sostiene l'impossibilità della conoscenza dell'accidentale; e porta come prova della sua tesi "il fatto che nessuna scienza pratica o produttiva o contemplativa se ne prende cura. Così, ad esempio, chi sta costruendo una casa non si mette affatto a costruire tutte quelle cose che accompagnano accidentalmente la costruzione della casa (queste sono infinite, perché nulla vieta che la casa, una volta costruita, sia attraente per alcuni, scomoda, invece, per altri, e ad altri vantaggiosa, e che essa sia, per così dire, diversa da tutte le altre case esistenti; ma l'arte della costruzione non si occupa affatto di produrre alcuna di queste cose)" (Libro VI).

Quindi, sostiene: "è ben logico che non ci sia una scienza dell'accidente, poiché questo non è altro che una sorta di nome". E' un nome che sta a rappresentare infiniti eventi imprevedibili, che non presentano alcuna necessità. Perciò, egli critica i sofisti che discutono sull'accidente, e considera la sofistica come un'attività che si occupa del non essere, ossia di qualcosa che non esiste per necessità. Oggetto della scienza deve essere invece ciò che esiste per necessità. Ma poi deve ammettere che tra l'accidente casuale e l'essere necessario ci deve essere dell'altro: tra le cose esistenti alcune sono invariabili ed esistono per necessità, ossia nel senso di "ciò che non può essere altrimenti", altre invece non esistono "né per necessità né sempre, ma per lo più". E il caso è "ciò che non è né sempre né per lo più".

E così, sebbene i casi siano infiniti, l'accidente casuale è per Aristotele un evento che non è nè sempre né per lo più, ossia un evento raro ed eccezionale. E poiché nella realtà poche sono le cose che esistono per sempre e per necessità, anche l'evento assolutamente necessario è un evento raro. La maggior parte delle cose non accade con assoluta necessità, ma solo "per lo più". In questo modo egli non ha fatto altro che riferirsi alla realtà dell'operare umano, dove, scavare per piantare un albero, rappresenta il "per lo più", mentre, trovare per caso un tesoro, rappresenta un evento raro ed eccezionale. L'ambito del "per lo più", come vedremo in seguito, è l'ambito del possibile che può accadere ma anche non accadere. Esso si estende in una misura non conosciuta né alla sfera della necessità assoluta né alla sfera del caso. Ma in natura che cosa accade?

In natura, il caso, come rarità, esce fuori da un gran numero di eventi altrettanto casuali, perciò il "per lo più" appartiene alla sfera della casualità; e la necessità altro non è, come aveva intuito anche Aristotele, che la conseguenza di combinazioni di eventi casuali rari ed eccezionali. Il suo errore, ancora una volta, deriva dall'aver preso a modello della natura la società umana, ad esempio il lavoro del contadino. Del resto con che cosa poteva verificare il suo ragionamento questo genio dell'antichità, quando la conoscenza della natura era così arretrata che sulla carne si poteva solo dire che era un composto di terra ed acqua? La natura era troppo poco conosciuta presso gli antichi pensatori, mentre essi conoscevano molto bene i propri rapporti sociali, le proprie attività produttive, religiose, politiche e militari. Inevitabilmente, fu partendo dai propri rapporti che essi immaginarono la natura e la divinità.

Nel libro XI della "Metafisica", lo stagirita torna di nuovo sulla "impossibilità dell'esistenza di una scienza dell'accidentale", dicendo: "Noi affermiamo che ogni cosa o esiste sempre per necessità ( ... ) o esiste per lo più, oppure non per lo più né per necessità, ma in modo fortuito; così, ad esempio, potrebbe far freddo durante la canicola, ma ciò non accade né per necessità sempre né per lo più". L'impostazione aristotelica è dunque chiarissima: ciò che accade fortuitamente, per caso, è un accidente raro, ed è soprattutto per questo motivo che egli esclude la possibilità di una scienza dell'accidentale. Di conseguenza egli esclude anche che l'accidentale abbia una causa, altrimenti se avesse una causa, tutto accadrebbe per necessità (e quindi l'accidentale rientrerebbe nell'ambito della scienza).

"Infatti, se si ha l'esistenza di una data cosa quando ne esiste un'altra, e si ha l'esistenza di quest'altra quando ne esiste ancora una terza, e se questa terza cosa esiste non fortuitamente ma per necessità, allora esisterà necessariamente anche ciò di cui questa è causa, finché non si arrivi a quello che si vuol considerare come ultimo effetto (e quello è appunto ciò che noi reputiamo accidentale) e il risultato sarà che tutte le cose esisteranno per necessità, e vengono, così, completamente soppressi dal modo del divenire sia ogni accadimento fortuito sia la possibilità che un fatto accada o non accada. E anche a voler supporre che la causa non sia un essere ma una cosa sottoposta al divenire, si avranno le medesime conseguenze: tutto, infatti, deriverà di necessità".

Se valessero le sequenze causali, verrebbero soppressi l'accadimento fortuito e la possibilità che un fatto accada o non accada. La necessità assoluta garantirebbe la realtà assoluta. Ma Aristotele sa che esiste la possibilità perché esiste il caso. Che un fatto possa accadere o non accadere, dipende dal caso: è il caso che impone l'incertezza della possibilità. Una realtà che dipenda dalla possibilità esiste solo per il concorso di circostanze fortuite: questa realtà appare perciò puramente accidentale e contingente.

Possibilità e realtà, caso e necessità: questi i due nodi mai sciolti dal pensiero umano per più di due millenni. Aristotetele li aggira, prima introducendo la fortuna che rappresenta una forma particolare di caso, quella che riguarda soltanto l'uomo cosciente, poi affermando che, "poiché nessuna cosa accidentale è anteriore a ciò che esiste di per sé, neppure le cause accidentali [che non sono vere cause] sono anteriori alle altre cause: e se anche la fortuna e il caso fossero la causa dell'universo, la mente e la natura sarebbero cause ancor prima di essi".

Insomma, di fronte alla difficile questione del rapporto possibilità-realtà, che deriva dal rapporto caso-necessità, Aristotele passa oltre, tenendo fermo sulla connessione di causa ed effetto, giungendo persino ad affermare che il principio di causalità non verrebbe smentito neppure se la fortuna e il caso fossero causa dell'universo. E' nel libro XII della "Metafisica" che possiamo trovare le ragioni di questa paradossale conclusione. Abbiamo già visto che egli ha negato l'evoluzione biologica fondata sulla dialettica caso-necessità, immediatamente dopo averla ipotizzata (sebbene per assurdo). Ora, di nuovo, giunge fino a concedere il caso come "primo motore", come "causa" della necessità dell'universo, ma soltanto per negare questa concezione.

Sembra quasi che egli abbia spinto il pensiero indipendente fino alle sue estreme conseguenze logiche, per poi rinnegarlo come pensiero sconveniente. Ma sconveniente per chi? Non certo per la scienza libera e indipendente, bensì per la "scienza divina e veneranda", sempre al servizio del potere politico e militare. E così, il più grande pensatore di tutta l'antichità ha sottomesso il suo pensiero alla teologia, "dimostrando" l'esistenza di una sostanza immobile ed eterna, intesa come causa motrice, come primo motore della natura. Questo principio primo deve servire a rendere ragione del movimento eternamente uniforme: "esso è la causa prima; quindi alla causa seconda, derivata dalla prima, si deve la varietà"; "tutte e due insieme costituiscono la causa della varietà che è eterna". E ancora:  "Noi affermiamo"  "che dio è un essere vivente, sicché a dio appartengono vita e durata continua ed eterna: tutto questo, appunto, è dio".

Ma è mentre elucubra attorno alla natura dell'intelletto divino che lo stagirita svela l'arcano: "E, invero, il pensare e l'atto del pensiero possono essere proprietà anche di chi pensa il peggio, e di conseguenza, se quest'ultima alternativa va evitata (ché ci sono cose che è meglio non vedere anziché vedere!), il pensiero non potrà essere il bene supremo". Quali sono le cose che è meglio non vedere, così da evitare di pensare il peggio? A nostro avviso, Aristotele allude alla cieca necessità derivata dal caso. E confermano la nostra ipotesi i due esempi da lui prodotti per illustrare l'ordine dell'universo. Nel primo,  paragona l'universo a un esercito, il cui ordine in primo luogo si identifica nel comandante "giacché non questi esiste per l'ordine, ma l'ordine esiste per mezzo di lui" . Insomma ci vuole un dio per l'ordine dell'universo, come ci vuole un comandante per l'ordine di un esercito. Entrambi rappresentano la causa prima dell'ordine necessario.

Col secondo esempio, più modesto, l'ordine delle cose naturali viene paragonato con l'ordine che regna in una casa: una casa dell'epoca, dove le persone libere non si comportano a caso, ma responsabilmente, e soltanto gli schiavi e gli animali sono lasciati al caso della loro conformazione naturale individuale. L'ordine aristotelico, dunque, non è altro che una astrazione dei rapporti sociali e politici della civiltà greco-macedone. Quest'ordine è attribuito al mondo esterno: "Ma il mondo della realtà non vuole essere malamente governato: "Non è buono il comando di molti; sia uno il signore"."

L'ordine necessario dell'universo deve essere il risultato del buon governo di un unico signore: un dio. Per inciso, potremmo notare che in Aristotele c'è già l'idea del dio unico, ma il suo monoteismo più che da motivi teologici deriva da motivi puramente terreni, politici. Non è un caso che Alessandro si faccia passare per figlio di un Dio, prima di affrontare la conquista dell'impero persiano.

In conclusione, Aristotele svela l'arcano del pensiero antico: il quale, sebbene capace di comprendere il disordine dispendioso e l'ordine raro ed eccezionale della natura, e quindi in grado di risolvere la dialettica caso-necessità, non essendo stato libero dal condizionamento del potere politico e religioso, ha dovuto respingere il pensiero reale (la concezione del reale dispendio), considerandolo come il pensiero del peggio; di conseguenza ha dovuto orientare il pensiero alla ricerca dell'immutabile, del permanente, del necessario, ritendolo il pensiero del meglio (ossia il pensar bene). Ma dove avrebbe potuto il pensiero trovare l'immutabile, il permanente e il necessario, se non in alcuni rapporti e prodotti umani (ad esempio la costruzione e la conduzione di una casa, la creazione e il comando di un esercito, ecc.)?

L'ordine umano, interpretato come risultato della connessione di causa ed effetto (cause semplici e dirette, come il padre è la causa del figlio, il generale è la causa dell'ordine dell'esercito, ecc.), è stato attribuito alla natura, alla quale è stato assegnato un comandante, un signore. La cieca dialettica caso-necessità della natura, che comporta dispendio, è stata negata semplicemente chiudendo gli occhi, per non vedere "cose che è meglio non vedere", ed è stata sostituita dal rapporto molto più economico ed efficiente di causa-effetto, lusinga e delizia dei teologi e dei potenti d'ogni epoca.

--------

Tratto da "Il caso e la necessità - L'enigma svelato - Volume Primo Teoria della conoscenza" (1993-2002), inedito

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...