domenica 19 dicembre 2010

Indagine sulla dialettica hegeliana per la soluzione dei rapporti caso-necessità, possibilità-realtà, causa effetto (parte seconda)

La critica di Hegel all'impostazione metafisica dell'empirismo Humiano e del criticismo kantiano

La prima concezione che Hegel prende in considerazione è la vecchia metafisica, il cui modo di procedere ingenuo "senz'ancora aver coscienza del contrasto del pensiero in sé con se stesso, contiene la credenza che, mediante la riflessione, si conosca la verità e si acquisti la coscienza di ciò che gli oggetti veramente sono. In questa credenza, il pensiero va diritto agli oggetti, riproduce il contenuto delle sensazioni e delle intuizioni facendolo contenuto del pensiero, e ne è soddisfatto come della verità. Tutta la filosofia nei suoi cominciamenti, tutte le scienze, ed anche il modo di procedere quotidiano della coscienza, vivono di tale credenza". (I passi qui riportati sono tratti dall'"Enciclopedia")

E' questo il senso comune metafisico, "che divenne dommatismo, perché, seguendo la natura delle determinazioni finite, doveva ammettere che di due affermazioni opposte, come ne porgevano quelle proposizioni, l'una dovesse essere vera, l'altra falsa". Questo modo di pensare procede, quindi, per antitesi assolute, tra le quali, le principali sono: "accidentalità e necessità; necessità esterna ed interna; cause efficienti e finali, o causalità in genere e finalità; essenza o sostanza ed apparenza; forma e materia; libertà e necessità; felicità e dolore; bene e male". Dunque, le principali polarità del pensiero dialettico furono originariamente concepite in opposizione diametrale tra loro, nella filosofia, e continuarono ad esserlo nella scienza moderna e nel senso comune.

La seconda concezione che Hegel prende in esame è l'empirismo, "il quale, in luogo di cercare il vero nel pensiero stesso, lo va ad attingere dall'esperienza, da quel che è presente nella percezione esterna ed interna". Valutandone positivamente l'oggettività, egli nel contempo biasima il soggettivismo kantiano: "C'è nell'empirismo questo gran principio: che ciò che è vero, deve essere nella realtà ed esservi per la percezione . Questo principio è opposto al dover essere, col quale la riflessione si gonfia e prende atteggiamenti sprezzanti verso il reale e presente, adducendo un al di là, che dovrebbe avere la sua sede e la sua esistenza solo nell'intelletto soggettivo".

Hegel giudica valido l'empirismo perché, "come la filosofia, conosce solo ciò che è: essa non sa niente di ciò che solo deve essere e che, per conseguenza, non è". Ma ne critica il fondamento metafisico: "L'illusione fondamentale nell'empirismo scientifico consiste sempre nel far uso delle categorie metafisiche di materia e forza, di uno, molti, universale, anche d'infinito, ecc., e con queste categorie andar sillogizzando, e presupporre così ed applicare le forme del ragionamento; e in tutto ciò non saper di contenere e praticare metafisica, e adoperando quelle categorie e le loro connessioni in modo del tutto privo di critica e di consapevolezza".

Giustamente Hegel biasima il carattere metafisico dell'empirismo, che continuamente scade in luoghi comuni dogmatici. Ma questo carattere deriva dal fatto che, ad esempio, l'empirismo di Hume accetta il punto di partenza del riduzionismo: il singolo caso; e poi, respingendone l'oggettiva casualità, si accontenta di una causalità fondata sull'abitudine, sulla ripetizione dei cento casi simili. Hegel non coglie questo aspetto, perciò si limita solo a registrare il problema dell'induzione di Hume prodotto dalla causalità per abitudine: "L'empiria mostra, sì, molte innumerevoli percezioni uguali; ma l'universalità è qualcosa di affatto diverso dalla gran moltitudine. Egualmente, l'empiria ci offre, sì, percezioni di cangiamenti successivi o di oggetti giustapposti, ma non già una connessione necessaria. Dovendo la percezione restare il fondamento di ciò che vale come verità, l'universalità e la necessità sembrano qualcosa d'ingiustificato, un'accidentalità soggettiva, una semplice abitudine, il cui contenuto può esser costituito così o altrimenti".

Per Hegel, l'esperienza non è la "semplice percezione singola di fatti singoli"; ma è proprio da questi che parte l'empirismo: se una moltitudine di percezioni uguali non ci assicura alcuna necessità, ma soltanto una "semplice abitudine", è solo perché la moltitudine qui è solo una serie di singole percezioni di fatti singoli. Da ciò egli si limita a trarre l'''importante conseguenza" "che in questo modo empirico le determinazioni e le leggi giuridiche e morali, nonché il contenuto della religione, appaiono qualcosa di accidentale, e si rinunzia alla loro oggettività ed alla loro intime verità". L'empirismo, quindi, non è in grado di determinare la necessità, e non solo nel diritto, nell'etica e nella religione, che non sarebbe un gran male, ma, quel che è peggio, nella scienza della natura e della società umana.

Riguardo alla terza concezione: il criticismo kantiano, Hegel scrive: "La filosofia critica ha in comune con l'empirismo l'accettazione dell'esperienza come unico campo delle conoscenze; le quali per altro non considera come verità, ma soltanto come conoscenza di fenomeni. Essa piglia le mosse dal distinguere gli elementi che si trovano nell'analisi dell'esperienza, cioè la materia sensibile e le relazioni universali". Considerando "che nella percezione per sé presa è contenuto solo il singolo e solo quello che accade, s'insiste sul fatto che, in ciò che si chiama esperienza, si ritrovano, come caratteri egualmente essenziali, l'universalità e la necessità. E poiché questo elemento non deriva dall'empirico in quanto tale, esso appartiene alla spontaneità del pensiero, ossia è a priori".

Come abbiamo già osservato, Kant, partendo dalla distinzione dei due campi, quello della percezione, che è percezione di singoli oggetti, ecc., e quello della universalità e della necessità, era nel giusto; ma, non avendo compreso che il campo della percezione singola appartiene alla sfera della casualità (che, anzi, egli rifiutava il caso), non aveva potuto comprendere l'oggetto appartenente alla necessità, ossia il complesso dei singoli oggetti, ecc. Perciò, dando ragione a Hume sull'impossibilità di poter inferire la necessità a partire dalla prima sfera, ha posto nella seconda, a fondamento della necessità, con una decisione arbitraria, le determinazioni a priori dell'intelletto puro.

Hegel biasima Kant, perché la sua "critica" "è un mero idealismo soggettivo (superficiale) che non penetra nel contenuto", e gli si contrappone come idealista oggettivo. Ma anche lui non penetra nel contenuto, potendo solo fare dell'ironia, come a riguardo della "cosa in sé". "La cosa in sé (e sotto la parola cosa è compreso anche lo spirito, Dio) esprime l'oggetto in quanto si astrae da tutto ciòche esso è per la coscienza, da ogni determinazione del sentimento come da ogni pensiero determinato". Egli chiama la  la cosa in sè caput mortuum (termine usato in alchimia per indicare il precipitato che rimane nella storta, dopo la estrazione dello spirito). "Perciò si deve soltanto meravigliarsi di aver letto così spesso che non si sa che cosa sia la cosa in sé; laddove non v'è niente di più facile a sapere che questo".

Secondo Hegel, la ragione kantiana, nel tentativo di conoscere l'incondizionato del mondo, "s'impiglia in antinomie, cioè nell'affermazione di due proposizioni opposte circa lo stesso oggetto, e in modo che ciascuna di queste proposizioni può essere affermata con pari necessità". La conseguenza è che Kant attribuisce la contraddizione non all'oggetto ma alla ragione pensante.

Scrive Hegel a questo proposito: "Questo pensiero, che la contraddizione, posta dalle determinazioni intellettuali nel razionale, è essenziale e necessaria, è da considerare come uno dei più importanti e profondi progressi della filosofia nei tempi moderni. Ma quanto profonda è questa veduta, altrettanto triviale la soluzione che se ne dà, e che consiste in una sorta di tenerezza per le cose del mondo. L'essenza del mondo non deve esser essa ad avere in sé la macchia della contraddizione: questa macchia deturpa solo la ragione pensante, l'essenza dello spirito. Certo, non si avrà nulla da opporre all'affermazione che il mondo fenomenico mostri contraddizioni allo spirito che lo considera ... Ma, quando si paragona l'essenza del mondo con l'essere spirituale, si può meravigliarsi con quanta disinvoltura venga pronunziata e ripetuta l'affermazione, piena d'umiltà, che non l'essenza del mondo, ma l'essenza pensante, la ragione, sia in sé contraddittoria".

Non riuscendo ad accordare le due distinte sfere della esperienza sensibile e dell'intelletto puro, Kant si è impigliato in antinomie, attribuendo alla ragione pensante la macchia della contraddizione. In questo modo non è riuscito a trovare la soluzione teorica nella Ragion pura, e ha pensato di poter trovare la soluzione pratica nella Ragion pratica. A questo proposito, Hegel osserva: "La ragion pratica è concepita come il volere che si determina da se stesso e cioè in modo universale, come volere pensante. Questo deve dare leggi imperative ed oggettive della libertà, tali che dicano ciò che deve accadere". A questa soluzione egli contrappone la semplice constatazione che la medesima esperienza (in specie l'induzione scettica, anche quella di Hume) mostra "l'infinita diversità di ciò che gli uomini tengono per diritto e dovere, vale a dire di quelle leggi della libertà, che dovrebbero essere oggettive".

Il concetto kantiano di "dover essere" è una via d'uscita troppo facile, che mantiene "la divisione del concetto e della realtà contro la realizzazione effettiva dello scopo finale". Ciò che Hegel non accetta di Kant è il fondamento soggettivo del fine ultimo e del bene: nel "dover essere" non esiste un fine oggettivo raggiungibile che sia prima o poi realizzato, ma qualcosa che è posto all'infinito come ideale irraggiungibile.

Tornando al punto fondamentale, -la validità e i limiti della conoscenza umana-, Hegel trova questa contraddizione nella logica kantiana: "E' perciò massima inconseguenza, da una parte, concedere che l'intelletto conosca solo fenomeni, e d'altra parte affermare questa conoscenza come qualcosa di assoluto, col dire: il conoscere non può andare oltre, questo è il limite naturale e assoluto del sapere umano". Non poteva certo immaginare che questa "inconseguenza" avrebbe dominato e soggiogato numerose generazioni di filosofi e scienziati.

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Tratto da "Caso e necessità - l'enigma svelato - Volume primo  Teoria della conoscenza" (1993-2002) inedito
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