domenica 18 novembre 2018

Riflessioni sul saggio medio del profitto

Nel secondo volume delle "Teorie Sul Plusvalore" Marx, affrontando la rendita fondiaria, ritorna sulla questione del saggio generale del profitto per ribadire che è errato sostenere "che la concorrenza dei capitali determini un saggio medio del profitto livellando i prezzi delle merci ai loro valori. Al contrario essa lo determina trasformando i valori delle merci in prezzi medi nei quali una parte del plusvalore di una merce è trasferita ad un'altra ecc."

Comprendere questo trasferimento del plusvalore non è semplice. Marx precisa: "Il valore di una merce è = alla quantità di lavoro pagato + non pagato [plusvalore], in essa contenuto. Il Prezzo medio di una merce è = alla quantità di lavoro (oggettivato o vivo) pagato in essa contenuto + una quota media di lavoro non pagato che non dipende dal fatto che esso era contenuto o meno nella stessa merce in questa ampiezza o se ne era contenuto più o meno nel valore della merce".

In sostanza, non importa chi ha prodotto e come la sua quota di plusvalore, perché ciò che conta è l'intero serbatorio di plusvalore prodotto nella produzione complessiva capitalistica. Perciò, se confrontiamo la produzione delle merci a basso contenuto di capitale costante (come può essere oggi, ad esempio, il confronto tra la produzione di beni di consumo nei PVS e la produzione di alta tecnologia nei PSA), possiamo dire: nel primo caso è prodotto molto plusvalore, nel secondo poco plusvalore (in relazione al capitale variabile, ossia alla forza lavoro impiegata), quindi le merci avranno, rispettivamente valore maggiore o minore.

Qui non entriamo nel merito del processo che comporta il trasferimento del plusvalore da un genere di merci ad un altro genere, aspetto che affronteremo nel prossimo volume di storia sulla Globalizzazione. Qui ci limitiamo a sottolineare che nel prezzo medio delle merci avviene un trasferimento di plusvalore dalle merci ad alto valore alle merci a basso valore, ma soltanto se prendiamo in considerazione il complesso totale delle merci prodotte nel mondo.

Se consideriamo le singole merci esposte in un negozio o anche un singolo genere di merci che invade un mercato, il suo prezzo è condizionato da circostanze puramente casuali. E' solo se consideriamo il compleso di tutte le merci prodotte nel mondo che possiamo applicare il concetto di media con la certezza della necessità. A mio avvviso, l'incomprensione del rapporto esistente tra il valore e il prezzo delle merci non è qualcosa che può essere addebitato soltanto agli interpreti della teoria di Marx, bensì al fatto che Marx, non avendo respinto completamente il determinismo, si è trovato spesso a utilizzare due metodi logici inconciliabili: il metodo deterministico-riduzionistico e il metodo statistico.

Quando Marx scrive che il "valore delle merci è determinato dal tempo di lavoro necessario alla loro produzione" utilizza il metodo statistico, ma quando prende in considerazione il valore della singola merce (sia essa un unico esemplare di un genere oppure un singolo genere di merci) concependo il suo valore = alla quantità di lavoro pagato + il plusvalore in essa contenuto, utilizza il metodo riduzionistico. Perciò, quando giunge alla conclusione che nei prezzi medi una parte del plusvalore di una merce è trasferito ad un'altra, non si capisce come si debba intendere la cosa.

Per capire, occorre concepire questo "trasferimento" come una necessità complessiva, allo stesso modo dei concetti di lavoro sociale medio, di saggio medio del profitto, di operaio complessivo, ecc. Quest'ultimo concetto può aiutarci in questa difficile riflessione. Marx ha concepito l'operaio complessivo come il vero artefice del plusvalore e della merce, indicandolo come l'insieme degli operai di fabbrica, e ha giustificato questo concetto in senso statistico. Nell'interpretare questo concetto gli ho attribuito un significato più generale. Se ciò che conta nella produzione capitalistica è il tempo di lavoro sociale medio, chi potrà mai fornirlo se non l'operaio complessivo generale, ossia l'universo mondiale degli operai?

L'operaio complessivo generale è l'intero contenitore della classe operaia mondiale. Ma, come abbiamo anticipato nel primo volume, la classe operaia mondiale è un contenitore di contenitori, per ciascuno dei quali vale la dialettica caso-necessità, probabilità-statistica. La conseguenza è che non si può confondere il valore di tutte le merci col valore delle merci parziali, ossia il valore delle merci prodotte in tutti i settori con il valore delle merci prodotte in un ramo della produzione o, peggio ancora, in una singola fabbrica.

Riguardo alla produzione del plusvalore è la medesima cosa. In sostanza, concetti come saggio del plusvalore, saggio del profitto, ecc. solo quando sono riferiti all'intera produzione capitalistica, nel suo complesso, possono fornire medie statistiche con l'assoluta certezza della necessità. Quando, invece, sono riferiti a contenitori inferiori, a singole fabbriche ma anche singoli settori della produzione, abbiamo una deviazione puramente casuale dalla media. Insomma, per fare un solo esempio: in una singola fabbrica può avvenire che non si ottenga neppure uno spettro di plusvalore, e vada avanti, soltanto, perché sostenuta dallo Stato.

E' il determinismo riduzionistito che non è in grado di comprendere queste distinzioni, e proprio perché crede che ciò che vale per il tutto valga anche per le singole parti e persino per il singolo caso. Allora, il mancato chiarimento della differenza logica esistente tra il determinismo riduzionistico e la dialettica caso-necessità ha prodotto le incomprensioni nei confronti della teoria di Marx ed Engels che, nei loro risultati più importanti hanno privilegiato la logica della dialettica caso-necessità.

Possiamo mostrare un altro esempio di confusione tra le due diverse logiche, citando il seguente passo di Marx: "Ebbene, cos'è che costringe il singolo capitalista a vendere p. es. la sua merce ad un prezzo medio -che questo prezzo medio salti fuori, che gli venga imposto non è affatto un suo atto libero, egli preferirebbe vendere la sua merce al di sopra del suo valore- che gli frutta soltanto il profitto medio e gli consente di realizzare meno lavoro non pagato di quello che di fatto è consumato nellla sua propria merce? La costrizione degli altri capitali esercitata attraverso la concorrenza".

La domanda posta qui da Marx esprime l'esigenza riduzionistica di determinare il comportamento del singolo capitalista. Ma la costrizione della "libera concorrenza" è una legge che riflette l'anarchia del sistema di produzione e di scambio capitalistico; perciò essa si manifesta in maniera casuale sui singoli capitalisti, e in maniera ciecamente necessaria sull'intera loro classe. Se la concorrenza costringesse direttamente i singoli capitalisiti a vendere la loro singola merce a un prezzo medio, essa sarebbe una legge derministica - riduzionistica. Invece, è una legge statistica che s'impone come media, complessivamente, e nel lungo periodo finisce con l'imporre l'eccezione statistica di un grande dispendio nella forma della centralizzazione del capitale complessivo in poche mani.

La legge della concorrenza è una tipica legge naturale che s'impone necessariamente nel processo complessivo, mentre sui singoli elementi del complesso lascia agire il puro e semplice caso. Ma il caso, che domina i singoli capitalisti, è proprio il fondamento della cieca necessità della legge della concorrenza, e, in generale, della cieca necessità del processo capitalistico. L'errore del determinismo riduzionistico, come abbiamo stabilito nel primo volume di Teoria della conoscenza, è consistito nel ritenere che la necessità complessiva fosse la conseguenza di una connessione necessaria, causale, tra singoli elementi di un complesso, concepito come meccanismo più o meno complicato. Poiché questa era l'idea dominante nelle scienza dell'Ottocento -ragion per cui non si era compresa la logica della necessità statistica- è più che ovvio che quest'idea sia comparsa anche nella elaborazione statistica-dialettica di Marx come elemento logico di disturbo.


 Tratto da "La dialettica Caso-necessità nella Storia"  Volume 4° (2003-2005)

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