sabato 10 novembre 2018

L'illusoria soluzione costituzionalista

Nell'"Ideologia tedesca" Marx ha fatto un'affermazione molto netta: "Non c'è storia della politica, del diritto, della scienza ecc. dell'arte, della religione ecc.". Intendeva con ciò chiarire che tutte le attività umane non economiche, che appartengono alla sovrastruttura della società, non hanno una evoluzione indipendente, fondate su se stesse, ma la loro evoluzione dipende, è condizionata, dall'evoluzione dei processi economici. Ma ha anche osservato riguardo ai giuristi, politici, moralisti, religiosi: "ognuno ritiene che il suo mestiere sia quello vero. Sul nesso che unisce il loro mestiere alla realtà, tanto più necessariamente si fanno illusioni perché ciò è già condizionato dalla natura del mestiere stesso". "Il giudice, p.es. applica il codice, e quindi per lui la legislazione è il vero motore attivo". Ciò vale anche per i costituzionalisti e per la storia delle costituzioni, argomento di questo paragrafo.

Gli storici costituzionalisti, i teorici del diritto, ecc. si illudono che il loro mestiere "sia quello vero", perciò ritengono che le costituzioni siano fondate su se stesse, indipendenti dai rapporti economici e dai rapporti politici conseguenti: per loro, è come se gli uomini maturassero il bisogno di creare e di modificare le costituzioni; insomma, come se esistesse un bisogno fondamentale, un'esigenza indipendente di costituzionalismo da sodddisfare.

E' ciò che si ricava dalla lettura di un saggio di Maurizio Fioravanti, "Costituzione" (1999). L'autore, per esempio, immagina, per il periodo dell'assolutismo, uno scontro autosussistente, indipendente e incondizionato, tra assolutismo politico e costituzione mista di origine feudale. Quindi rilevante diventa la trattazione formale e convenzionale del contrasto tra le due diverse forme costituzionali, non già il nesso tra assolutismo e formazione economico sociale che stava evolvendo. Ma la via da seguire è un'altra, anche se uno storico delle costituzioni, come Fiorvanti non vuole prenderla in considerazione: è la dipendenza delle forme politiche e giuriche dall'economia ciò che conta.

Ad esempio, lo Stato assoluto fu la forma politica  del neonato Stato nazionale europeo che, per sopravvivere e guadagnare una solida posizione nel concerto degli Stati nazionali, aveva due diversi strumenti molto costosi in termini economici (e in vite umane): le guerre e le paci. I costi delle guerre e delle paci dovevano essere pagati col sacrificio del benessere economico e della vita dei cittadini, come la storia dei conflitti militari dal XVI al XVII secolo conferma. Tasse e vite umane: questo il tributo pagato dal popolo suddito ai sovrani degli Stati nazionali assolutistici. Non a caso Hobbes scriveva: "Legge fondamentale è in ogni Stato quella che, ove venga abolita, lo Stato cade e si dissolve completamente come un edificio cui vengano distrutte le fondamenta. Pertanto una legge fondamentale è quella in forza della quale i sudditi sono tenuti a sostenere ogni potere dato al sovrano, monarca o assemblea sovrana che sia, senza il quale lo Stato non possa sussistere, quale è il potere di guerra e di pace, di giudicatura, di nomina di funzionari e di fare qualsiasi cosa quegli ritenga necessario per il pubblico bene". Come si vede, lo Stato assoluto fu assoluto per cieca necessità, per la vitale esigenza di sostenere guerre e paci molto onerose.

Per comprendere la soluzione costituzionalista moderna bisogna partire proprio da qui: la formazione degli Stati nazionali avvenne durante il passaggio dall'economia feudale all'economia capitalista. Ciò che emerse fu l'esigenza per la nuova classe dominante di avere uno Stato sovrano. Teoricamente questa esigenza fu elaborata da James Harrington  e da John Locke. Il primo pubblicò nel 1656 "The Commonwealth of Oceania" dove propugnò -scrive Fioravanti- la costruzione di una repubblica stabile e moderata "in cui si ha un Senato dove si è elettori ed eleggibili con un reddito superiore a cento sterline, e una Camera in cui tutti i proprietari sono elettori ed eleggibili, e da cui sono  esclusi i singoli salariati, i nullatenenti, i mendicanti". Al senato, rappresentato dai proprietari più ricchi, doveva spettare il monopolio del potere legislativo. Insomma, una repubblica ad hoc per la nuova classe dominante: la borghesia.

Nel 1660 fu restaurata la monarchia inglese e nel 1689 la "Gloriosa rivoluzione" adottò il celebre Bill of Rights che garantiva una forte centralità del parlamento. Con due trattati sul governo, pubblicati nel 1690, scrive Fioravanti: "Locke formulava per la prima volta la distinzione tra potere assoluto e potere moderato costituzionale". Come abbiamo già visto, nella prima rivoluzione, quella guidata da Cromwell, il suo teorico, Hobbes, rinnovò teoricamente un assolutismo estremo nella forma del grande Leviatano; mentre la seconda rivoluzione pacifica del moderato Guglielmo d'Orange, Statlander d'Olanda, chiamato da Tories e Wigh, "per la religione protestante e un libero parlamento", trovò in Locke il suo teorico, il quale non fece che adeguarsi all'esigenza di potere della nuova classe dominante dei proprietari borghesi, per garantire la quale scisse in due i poteri, legislativo ed esecutivo, che erano in precedenza detenuti dal sovrano assoluto, attribuendoli ora a due soggetti distinti: rispettivamente al parlamento e al governo. Locke in Inghilterra e Montesqieu in Francia concepirono la divisione, e la conseguente bilancia, dei poteri.

Se consideriamo anche il resto dell'Europa, nel complesso degli Stati nazionali allora vigente, si possono osservare due forme costituzionali opposte: quella dela sovranità assoluta e quella del parlamento costituzionale, ossia quella arretrata e quella moderna, funzionale alla borghesia. Questa differenza riflettava semplicemente l'ineguale sviluppo capitalistico. Insomma, la cosiddetta storia dell'assolutismo e del costituzionalismo dipende, rispettivamente, dalla arretratezza e dallo sviluppo capitalistico. Allora, se due rivoluzioni inglesi hanno preceduto di oltre un secolo altre due rivoluzioni, quella americana e quella francese, ciò non è avvenuto per un bisogno interiore di nuove costituzioni, ma solo come conseguenza del differente sviluppo dell'economia che ha favorito per prima la nascita del capitalismo in Inghilterra. Ma la rivoluzione di fine Settecento, in America e in Francia, hanno prodotto la novità del "potere costituente". Per Fioravanti ciò signica soltanto che sono venute a combinarsi due concezioni opposte, quella della "sovranità" e quella della "costituzione": la sovranità diventa popolare e, ponendosi come "potere costituente", crea la Costituzione. Ma questa spiegazione è vuota astrazione, perché riduce due nuovi e grandiosi processi storici in pure e semplici combinazioni di vecchio e nuovo.

Chiariamo, invece, quali furono le reali molle delle due rivoluzioni, quella americana e quella francese. In entrambe si trattò inizialmente di una reazione a eccessive imposizioni di tributi da parte dei governi assolutisti.* In questo modo l'assolutismo dimostrava di non poter garantire al neonato capitalismo di poter fare i propri affari senza essere continuamente colpito da tasse eccessive per motivi estranei all'economia. Ciò che costituiva la principale preoccupazione e minaccia per la nascente borghesia era proprio la prerogativa della sovranità assoluta di imporre leggi e tributi dannosi allo sviluppo  economico: produzione e commercio. E' questa la storia economica che spiega la necessità della modificazione delle forme del potere politico, delle forme giuridiche e costituzionali. 

La rivoluzione francese, dopo il lungo periodo della Costituente, produsse la Costituzione del 1795, più moderata rispetto alle precedenti, e assai più congeniale agli interessi della borghesia. Essa, scrive Fioravanti: "Abbandonò il suffragio universale e diretto reintroducendo le elezioni di secondo grado e tornando a legare l'esercizio del diritto di voto al pagamento delle imposte. Per la prima volta scelse un legislativo bicamerale, composto da un consiglio dei Cinquecento titolare del monopolio del potere d'iniziativa legislativa, e da un Congresso di Anziani, chiamato alla approvazione finale della legge. Ed infine fece nominare dal Corpo legislativo un Direttorio composto di cinque membri, cui la Costituzione affidava un vero e proprio potere esecutivo ...".

Sappiamo come è andata a finire: l'impero napoleonico, la sua caduta e la restaurazione nel continente europeo di un sistema di Stati  a sovranità assoluta. Ciò che in maniera sanguinosa, segnata da rivoluzioni, guerre e controrivoluzioni, si andava costruendo alla solita maniera dispendiosa, tipica della cieca necessità fondata sul caso, di una specie umana divisa, era la sovrastruttura più adeguata alla nuova forma economica capitalistica, sorta sul vecchio continente europeo non più feudale. Con il senno di poi si potrebbe affermare che il tentativo napoleonico di unificazione dell'Europa, se fosse riuscito, avrebbe lasciato in eredità e con molto anticipo l'Unione europea o gli Stati Uniti d'Europa, ossia una sovrastruttura politica assai più favorevole al capitalismo del vecchio mondo di quella che si realizzò nella forma degli Stati nazionali divisi e sempre in guerra tra loro, nonostante la "balance of power" britannica.

Stato nazionale e Costituzione furono gli aspetti predominanti sulla teoria e sulla pratica politica dell'Ottocento europeo, fino all'unificazione della Germania da parte di Bismark e alla decisiva guerra franco-tedesca del 1870. Hegel acutamente sostenne: "La Francia ha uno Stato, ed è, dopo la rivoluzione, alla ricerca di una Costituzione. La Germania, al contrario, ha una costituzione, ma si ostina a non ricercare quello che le serve per esistere politicamente, ovvero uno Stato". Hegel aveva molto chiara l'idea della necessità collettiva ed era cosciente della contraddizione, sottolineata in seguito da Marx nel 1843. Scrive Fioravanti: "Come [Hegel] affermerà nei suoi "Lineamenti di filosofia del diritto", del 1821, uno Stato che esiste per il "fine ultimo" di curare l'interesse dei singoli, alla fine non potrà mai che essere considerato da questi come mero strumento, da usare e da disporre a seconda delle circostanze".

In ultima analisi, la costituzione statale combatte l'antico privatismo dei ceti, ma anche il moderno privatismo degli individui, poiché l'uno e l'altro, da sponde opposte, distruggono il princìpio di unità politica, riducendo lo Stato a mero risultato di un contratto tra parti distinte, tra queste sempre revocabile. Per questo motivo Hegel considerò l'affermazione della Costituzione come affermazione della sovranità dello Stato. La Costituzione doveva rappresentare la necessità dell'ordine complessivo al di sopra delle volontà particolari. Fioravanti riassume correttamente la concezione di Hegel: "La Costituzione non poteva essere intesa semplicemente come norma che ordina i poteri e garantisce i diritti. Essa era piuttosto da intendersi come ordine fondamentale della convivenza civile, costruito a partire dalle volontà particolari delle concrete forze sociali e degli stessi individui, ma in modo tale da produrre alla fine la supremazia dell'universale, dell'interesse generale, della sovranità dello Stato".

Hegel è stato l'unico tra gli studiosi del passato, fino all'inizio dell'Ottocento, a comprendere la difficile polarità dialettica singolo-complesso in relazione alla seguente polarità: l'arbitrio delle volontà singole e particolari - l'ordine della volontà generale, della comunità politica. Ma la soluzione dello "Stato sovrano capace di imporre il primato dell'interesse generale sugli interessi particolari" non poteva essere la soluzione universale definitiva per l'umanità, sia perché ogni Stato sovrano poteva imporre soltanto, a sua volta, il primato dei suoi particolari interessi contro gli interessi di altri Stati sovrani, sia perché era sorta una nuova classe dominante che avrebbe posto i suoi interessi particolari come l'interesse generale superiore alla Stato stesso. E' dunque importante sottolineare di nuovo che l'universalità cui si appellava Hegel poteva essere soltanto l'universalità della specie umana non più divisa, perché solo una specie umana indivisa può avere un interesse universale. E, comunque, Hegel il reale problema l'aveva individuato e posto. A parte Marx ed Engels, nessun altro teorico moderno, ad eccezione forse di Kant, è arrivato a comprendere questo fondamentale problema. Ma senza questa comprensione è difficile capire la contraddizione esistente tra democrazia e liberalismo e la conseguente "ristrettezza" della democrazia, cioè quella che Lenin chiamò democrazia per una minoranza del 10%.

Fioravanti ricorda giustamente che "Anche in Francia dunque, e non solo in Germania, o magari in Italia, il diritto pubblico si andava coostruendo, tra Otto e Novecento, su base statale, mediante un'opposizione sempre più chiara e netta al principio democratico della sovranità popolare". E persino in Inghilterra mancava un vero principio democratico. Insomma "Le costituzioni del tempo possono essere statali, e magari parlamentari, ma certo non sono  in alcun modo costituzioni democratiche..." Questa conclusione è solo in parte giusta, nel senso che non erano costituzioni che si estendevano a tutto il popolo. Ma rimanevano costituzioni democratiche anche se in modo molto ristretto, perché ristretta era la classe dei proprietari alla quale esse si rivolgevano. Il capitalismo dell'Ottocento e della prima metà del Novecento ha prodotto una grande massa di proletariato come necessario complesso di occupati e come necessario esercito di riserva industriale. Non poteva, perciò, concedere una democrazia allargata che comprendesse anche i grandi numeri del proletariato. Sarebbe stato lo stesso che affidare ai nullatenenti il potere di legiferare sui proprietari. E' questo, del resto, come abbiamo già osservato, il problema che oggi si ripresenta in Cina e che gli americani e gli europei fingono di ignorare quando pretendono da Pechino l'introduzione frettolosa della democrazia.

Per poter allargare la democrazia (borghese) occorreva far crescere il numero di proprietari. Dapprima, la borghesia del paese più sviluppato, l'Inghilterra, favorì lo sviluppo dell'aristocrazia operaia. In seguito, prima in America, negli anni Venti del Novecento, poi in Europa, negli anni Sessanta, cominciò a formarsi un "ceto medio" sempre più esteso, costituito da aristocrazia operaia, impiegati privati e statali, bottegai, ecc. Questo ceto, diventando proprietario di qualcosa: case, automobili, ecc., contribuì ad ampliare la base democratica. Come abbiamo già osservato, le Costituzioni non si modificano per sentimento o interesse "costituzionale". La costituzione democratica si è estesa semplicemente perché la ragione borghese, che ne ha costituito il fondamento, ha trovato soddisfazione nell'allargamento della base dei proprietari, unica base concepibile nell'era della borghesia. Ma ciò che è potuto accadere nell'Occidente opulento, l'allargamento della base democratica dei proprietari, è un risultato che è stato pagato da una crescita, nel resto del mondo, di nullatenenti privi persino di condizioni di vita civili. Se guardiamo all'intera specie umana, la base economica che può permettere l'esercizio della democrazia borghese si è ristretta rispetto al passato. Il motivo è molto semplice: la crescita demografica ha penalizzato il ceto medio occidentale e privilegiato i poveri del Terzo mondo.

E non è finita: anche in Occidente la recente riduzione del ceto medio, restringendo la base dei proprietari, sta producendo effetti che possono essere tranquillamente valutati come restrizione della democrazia borghese. E' ciò che sta capitando, soprattutto negli Stati Uniti, nell'attuale fase della "globalizzazione". In definitiva, la contraddizione tra liberismo e democrazia fa parte di quelle contraddizioni insolubili, totalmente condizionate dal processo capitalistico di produzione e distribuzione.


Tratto da "La dialettica caso-necessità nella storia"  4° Volume (2003-2005)

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