L'importanza che i "Grundrisse" [Lineamenti fondamentali] hanno avuto negli anni Sessanta del Novecento è andata via via scemando fino a passare nel dimenticatoio. Scritta tra il 1858 e il 1859, quest'opera può essere considerata un'anticipazione -quasi una brutta copia- del primo volume de "Il capitale". La ragione di queste numerose (oltre mille) pagine, hegelianamente malagevoli, si trova in una lettera di Marx spedita ad Engels nel novembre 1857: "Lavoro come un pazzo, le notti intere, per riassumere i miei studi economici, in modo da aver chiaro almeno i lineamenti fondamentali prima del diluvio". Insomma, Marx temeva che scoppiasse una rivoluzione prima ancora di aver terminato quel lavoro teorico che avrebbe dovuto rappresentarne la guida.
Non deve neppure stupire il fatto che affrontare un testo complesso e ancora "irrisolto" come i "Grundrisse", considerati generalmente illeggibili, abbia rappresentato, per alcuni giovani filosofi italiani degli anni '60, un'autentica sfida intellettuale; mentre chi scrive, in tutt'altre più modeste faccende affaccendato, non li abbia presi in considerazione per decenni, ma soltanto di recente [si fa per dire, erano i primi anni '90], cogliendo, però, immediatamente, una fondamentale connessione con la precedente tesi di laurea di Marx.
Quella tesi aveva posto in primo piano la contraddizione tra il determinismo democriteo e l'indeterminismo epicureo, individuandola come principale problema filosofico di tutti i tempi. Per la prima volta nella storia della teoria della conoscenza, la contrapposizione tra Democrito ed Epicuro veniva fondata sulla opposizione tra la necessità (sostenuta da Democrito nella forma di causa-effetto) e il caso (sostenuto da Epicuro nella forma di probabilità). Ebbene, nei "Grundrisse", Marx cercò la soluzione teorica di questa antica, fondamentale opposizione.
Ma, come già affermato in altri scritti dall'autore di queste riflessioni, il predominio del determinismo ottocentesco rese improba la comprensione della dialettica caso-necessità persino per menti dialettiche come Marx ed Engels. Insomma, la difficoltà di lettura dei "Grundrisse" dipende proprio dalla mancata soluzione dialettica del rapporto caso-necessità da parte di Marx, il quale, pur insoddisfatto del determinismo riduzionistico (il cui punto di partenza bollò come robinsonata), e pur ammettendo la forma statistica della necessità, si sentì costretto a partire riduzionisticamente dai singoli individui per arrivare in senso deterministico alle classi, ossia ai complessi sociali.
Molti intellettuali e filosofi europei degli anni '60 hanno preso in considerazione i "Grundrisse", in particolare il quaderno M (l'introduzione), nel quale Marx espose i suoi princìpi generali delineando il suo metodo d'indagine scientifica ed abbozzando, come promemoria, alcuni punti da sviluppare. Anche l'autore di questo blog ha preso in considerazione, ma solo di recente, il quaderno M, per dimostrare i seguenti due punti fermi:
1) la prolissità e l'oscurità sono dovute al fatto che Marx, non distinguendo la sfera del caso, alla quale appartengono i singoli individui, dalla sfera della necessità alla quale appartengono i complessi, le classi sociali -essendo ancora sotto l'influenza del pensiero deterministico riduzionistico dominante nell'Ottocento- non poté trovare il bandolo della matassa, vedendosi costretto a dipanare la complessità con un lavoro immane, certosino, fin nei minimi particolari;
2) anche in seguito, molti anni dopo, nonostante l'acquisizione del metodo statistico, Marx continuò a pretendere di determinare tutto fin nei minuti particolari, senza potervi riuscire: da ciò la sua forte autocritica che gli impedì di concludere il secondo e il terzo volume del Capitale, ritenendo che gli mancasse sempre qualcosa per una sintesi generale conclusiva. E aveva ragione.
Come ha osservato Lenin, Marx non ci ha lasciato una Logica Dialettica, ossia, una concezione filosofica generale. E, come ha chiarito l'autore di questo blog, ciò è avvenuto per la decisiva ragione che il peso del determinismo riduzionistico, imperante nell'Ottocento (appena scalfito dalla statistica sociale, giunta al semplice livello dell'uomo medio di Quetelet), impedì a Marx di vedere il rapporto caso-necessità come il vero problema da risolvere, ossia, come la principale e fondamentale opposizione dialettica.
Esaminando il capitolo "PRODUZIONE, CONSUMO, DISTRIBUZIONE, SCAMBIO (CIRCOLAZIONE)" vediamo che il punto di partenza della produzione materiale era per Marx costituito dagli individui autonomi: "Individui che producono in società, e quindi la produzione socialmente determinata degli individui, costituiscono naturalmente il punto di avvìo". In sostanza, qui Marx parte dal semplice, dal singolo elemento del complesso sociale, ma poi, riguardo alla singolarità individuale precisa: "Il cacciatore e pescatore singolo e isolato con cui cominciano Smith e Ricardo rientrano tra le fantasie prive di immaginazione delle robinsonate del XVIII secolo, ..."
Dunque, prendere l'individuo isolato come protagonista iniziale = robinsonata. Giustamente Marx osserva che, nonostante l'apparenza, si tratta "piuttosto dell'anticipazione della "società civile" che si stava preparando dal XVI secolo, e che, nel XVIII, ha compiuto passi da gigante in direzione della maturità. In questa società della libera concorrenza il singolo appare svincolato dai legami naturali ecc.", come risultato della dissoluzione delle forme sociali feudali. Marx, qui, si preoccupa di chiarire il ruolo dell'individuo nella storia: "Più torniamo indietro nella storia e più l'individuo, e quindi anche l'individuo che produce, ci appare non autonomo, ma parte di una totalità più vasta": prima la famiglia allargata, poi la tribù, la comunità, ecc.
In questo modo egli considera correttamente la realtà necessaria dei complessi umani, separandola dalla realtà contingente dei singoli individui costituenti: "Solo nel XVIII secolo, nella "società civile", le differenti forme dei nessi sociali si presentano al singolo come un puro mezzo per i suoi fini privati, come una necessità esteriore. Ma l'epoca che crea questo modo di vedere, il modo di vedere del singolo isolato, è proprio quella dei rapporti sociali (...) finora più sviluppati. L'uomo è nel senso letterale del termine un animale sociale, non solo un animale sociale, bensì un animale che può isolarsi solo nella società". Ben detto! Questa era la corretta base di partenza concettuale per giungere a concepire i complessi sociali necessari, costituiti da singoli individui casuali.
Ancora giustamente Marx osserva che la "produzione dell'individuo isolato all'esterno della società" "è una assurdità pari al formarsi di una lingua senza che esistano individui che vivano e parlino assieme". Ma se le cose stavano così, il punto di avvìo non poteva essere l'individuo in quanto tale, isolato dagli altri individui in quanto tali. "Quando si parla di produzione, si parla sempre di produzione a un determinato livello dello sviluppo sociale -della produzione di individui sociali". Dire questo significa sottolineare che si tratta di complessi sociali, ossia che si tratta dell'individuo complessivo, ovvero della cosiddetta totalitat hegeliana, opposto dialettico della individualità singolare.
Anche senza dover affrontare i diversi settori della produzione, per semplificare ed enucleare il nocciolo della questione, possiamo osservare che Marx, fin dall'inizio, distingue tre forme di produzione che si sono succedute nella storia, le quali hanno stabilito, in ogni epoca, la condizione degli individui sociali: 1) la condizione dello schiavo, 2) la condizione del servo della gleba, 3) infine, la condizione dell'operaio salariato. In altri termini, la produzione, in ogni epoca, è stata un risultato complessivo non individuale. Prima è stata la produzione dello schiavo complessivo, poi quella del servo della gleba complessivo, infine, quella del salariato complessivo. E' ai complessi che spetta l'onore e l'onere della necessità, mentre i singoli individui restano sotto il dominio del caso. Questa doveva essere, perciò, la soluzione definitiva.
Che cosa l'ha impedita? Marx, si è limitato a ribadire: "Ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell'individuo all'interno e a mezzo di una determinata forma sociale". A differenza degli autori di robinsonate, per i quali convenzionalmente il singolo individuo isolato è il punto di partenza dal quale incontra un altro individuo isolato, ecc., Marx ha concepito il singolo individuo sociale all'interno di una data società. Ma sempre di singoli individui si trattava, mentre avrebbe dovuto sottolineare i complessi di individui!
Se è vero che, respingendo le "robinsonate", Marx iniziava a prendere parziale coscienza della falsità del metodo di riduzione dal complesso sociale all'individuo singolo, egli non vide, però, che la falsità relativa all'individuo non riguardava solo la sua condizione di isolamento sociale. E' la "determinazione" stessa di "individuo", in quanto singolo elemento di un complesso, che è impossibile, sia che lo si consideri isolato sia che lo si consideri in società, perché un individuo entro la sua classe, ad esempio, è solo un elemento singolo, casuale, appartenente a un complesso più vasto, questo sì soggetto alla necessità. Da qui il rapporto reale: caso singolo - necessità complesso.
Se, invece, si insiste sull'individuo, sulla sua condizione individuale in una determinata società di classi, si è poi costretti a precisare ogni volta, come fa Marx, che questo individuo non è isolato ma vive in società. Se, però, si comprende, fin dall'inizio, che il singolo individuo, preso in se stesso, è sempre e soltanto un individuo casuale appartenente alla specie umana, sia esso schiavo o servo della gleba o operaio salariato, allora si può comprendere che, preso ad esempio come singolo elemento della specie umana (o, ad esempio, della classe operaia), l'individuo è parte infima, casuale, di un più vasto complesso che possiamo chiamare uomo collettivo (o, ad esempio, operaio collettivo), soggetto alla necessità.
Allora, parlando di produzione sarà sufficiente affermare: ogni produzione è appropriazione della materia da parte del produttore complessivo necessario del periodo storico considerato. In questo modo l'individuo scompare: il suo apparente protagonismo cede il passo al reale protagonismo della necessità complessiva rappresentata dalla sua classe e ancora di più dalla sua specie. Utilizzando la terminologia hegeliana, possiamo dire, a questo punto, che ogni equivoco sull'individuo cessa, perché risulta chiaro che ogni individuo, come elemento di una totalitat, è soggetto alla sfera del caso, ma la totalitat, o complesso degli individui, è soggetta alla sfera della cieca necessità. Ecco la soluzione sfuggita a Marx, non essendo i tempi della conoscenza ancora maturi.
Passando al paragrafo 3, "Il metodo dell'economia politica", possiamo comprendere perché la soluzione sfuggì a Marx. Infatti, che cosa vediamo qui? Che egli incorre in un "refuso" cartesiano quando sostiene che, partendo dalla popolazione si avrebbe "un'immagine caotica dell'insieme", ma che, attraverso una determinazione più precisa si perverrebbe "sempre più, analiticamente a concetti più semplici". Che cosa è questo se non il vecchio metodo cartesiano di riduzione dal complesso al semplice? Al quale deve poi seguire il percorso inverso, che Marx, così, descrive: "Da quel punto il viaggio dovrebbe essere ripreso in senso opposto, e infine" si giungerebbe "nuovamente alla popolazione, che questa volta però non sarebbe più la rappresentazione caotica di un insieme, bensì una ricca totalità di molte determinazioni e relazioni". Sebbene con un'altra terminologia, potremmo dire che, qui sopra, egli ha, comunque, descritto il determinismo riduzionistico appartenente al metodo cartesiano.
Poi aggiunge: "la prima via è quella che l'economia ha imboccato storicamente al suo sorgere", perché, appunto, vigeva il determinismo cartesiano, che, partendo da uno complesso confuso e caotico, lo riduceva a elementi sempre più semplici intesi come singoli componenti di un composto da ricostruire nel processo inverso. "Appena questi singoli momenti furono più o meno fissati e astratti -aggiunge Marx-, sorsero i sistemi economici che dal semplice, come il lavoro, la divisione del lavoro, il bisogno, il valore di scambio, risalgono fino allo Stato, allo scambio tra le nazioni e al mercato mondiale. Quest'ultimo è evidentemente il metodo scientificamente corretto".
Ma se questo metodo gli apparve scientificamente corretto, ripreso com'era dal vecchio e apparentemente collaudato metodo cartesiano, che cosa scoprì in seguito? Che ciò che appariva semplice era, in realtà, una cosa complessa. Così il valore di scambio, il lavoro, ecc., solo in apparenza semplici, sono in realtà molto complessi e complicati. Il motivo è questo: sarebbero semplici il lavoro, il valore di scambio, ecc. se riguardassero necessariamente singoli lavoratori, singole merci; invece riguardano necessariamente soltanto il complesso di tutti i lavoratori, il complesso di tutte le merci. Ad esempio, è il lavoro complessivo che, producendo la categoria economica del "tempo di lavoro socialmente necessario", fornisce il fondamento della teoria del valore-lavoro.
In sostanza, fin dai "Grundisse", Marx, pur partendo dal riduzionismo cartesiano alla ricerca della determinazione dei singoli elementi, scoprì poi correttamente la necessità complessiva: la necessità del lavoro complessivo, della merce complessiva, ecc., fino al saggio generale del profitto complessivo. Però non arrivò a chiarire una volta per tutte che, essendo il plusvalore, in ogni epoca, un risultato complessivo, le classi sociali dovevano sostituire definitivamente l'individuo come oggetto di studio della scienza dell'economia, perché l'individuo era indeterminabile in quanto soggetto alla sfera del caso.
E infatti egli continuò a esprimere spesso nei "Grundrisse" preocupazioni riduzionistiche di origini cartesiane, che dominavano tutte le scienze dell'Ottocento (e perciò era improbo ignorarle). Per queste scienze, ad esempio, i corpi non erano nulla se non si teneva conto delle singole molecole. Perciò non possiamo stupirci troppo del fatto che Marx non abbia poi scritto, nel primo libro de "Il capitale", neppure un capitolo sulle classi sociali, e solo pochi cenni appaiano nel terzo libro.
Il fatto è che aveva trovato, in anticipo sul suo tempo, assieme all'amico e collaboratore Engels, e con quella geniale intelligenza che contraddistingueva entrambi, quei risultati necessari che il metodo di partenza (il determinismo riduzionistico dell'Ottocento, di origine cartesiana) non avrebbe dovuto o potuto permettere. Perciò, entrambi non poterono essere in grado di giustificare teoricamente quei risultati e, del resto, non ebbero il tempo di rompere definitivamente e completamente con il primato del rapporto di causa ed effetto in un'epoca in cui il determinismo riduzionistico dominava anche le menti migliori (Darwin, ad esempio, come il suo "terribile pasticcio del caso" insegna).
Rimaneva, perciò, un equivoco, ma è proprio per questo che i "Grundrisse" sono sempre piaciuti all'intellettuale piccolo borghese di sinistra che si piccava d'essere un rivoluzionario marxista: era l'equivoco dell'insistenza sul ruolo del singolo individuo. Anche trattando la produzione, la distribuzione, il consumo, ecc. Marx continuò ad attribuire all'individuo quella determinazione necessaria che solo in seguito, dopo decenni di studi, assegnerà, definitivamente, soltanto alle classi sociali.
Riguardo alle conclusioni del quaderno M, nel quale Marx criticò l'identità hegeliana tra le diverse fasi del capitale, produzione, consumo, scambio e distribuzione, ponendo come prius la produzione stessa, sia pur condizionata dalle altre fasi, possiamo notare che la sua terminologia era, ancora, prevalentemente deterministica, come qui di seguito: "Una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione e uno scambio determinati, oltre che determinati rapporti reciproci tra questi differenti momenti. E' però vero che anche la produzione, nella sua forma unilaterale, è a sua volta determinata dagli altri momenti". E questa reciproca determinazione è così definita: "Ha luogo interazione tra i differenti momenti. Ciò avviene in ogni insieme organico".
Queste sue conclusioni peccano di due errori, almeno uno dei quali verrà superato ne "Il Capitale" con la riflessione statistica. Il primo, che se veramente esistesse la reciproca determinazione tra i diversi momenti del ciclo capitalistico, non esisterebbe alcuna contraddizione, neppure quella relativa all'anarchia della produzione capitalistica e alle conseguenti crisi profonde. Il secondo, che la reciproca determinazione era solo un modo con il quale la scienza dell'Ottocento credeva di poter meglio intendere i rapporti tra le parti di un composto fisico o organico, modo che apparve anche ad Engels meno metafisico di quello della determinazione lineare di causa-effetto.
Hegel aveva criticato il rapporto lineare causa-effetto, considerato come tautologico, preferendo, invece, il rapporto circolare della reciprocità tra causa ed effetto apparendogli più dialettico; e su questa via si pose anche Engels, toccando il punto massimo raggiungibile dalla teoria della conoscenza dell'Ottocento.
Possiamo dunque concludere sostenendo che è soltanto nella "Dialettica della natura" di Engels che troviamo la novità della prima intuizione-espressione del rapporto dialettico caso-necessità, ma solo come indicazione per il futuro: indicazione che è stata ripresa, come punto di partenza della dialettica caso-necessità, dall'autore di questo blog.
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