lunedì 27 febbraio 2012

1) Storia della nascita della biologia molecolare

Suo fondamento: il "dogma centrale" DNA-RNA-proteine

Lo scopo di questo paragrafo è ricostruire in breve sintesi la storia della nascita e dello sviluppo della biologia molecolare, per comprendere sia il successo della teoria del codice genetico sia la sua concretizzazione nella formula del dogma centrale fondato sul DNA. La comprensione di questi due risultati della biologia molecolare è di importanza fondamentale non solo per la biologia ma anche per la teoria della conoscenza, perché in essi troviamo una soluzione, ritenuta definitiva, del rapporto caso-necessità nella scienza della vita.

Questa soluzione però, come tentiamo di dimostrare, è la solita riproposizione del determinismo riduzionistico e meccanicistico, per il quale l'ordine complessivo deriva dall'ordine dei singoli elementi costituenti. Compito nostro sarà, ancora una volta: 1) criticare le contraddizioni di una scienza che persegue una conoscenza soltanto convenzionale e fittizia, 2) offrire una nuova impostazione per la ricerca di soluzioni reali.

La principale contraddizione che scopriamo nella storia della biologia molecolare è quella esistente tra la complessità dell'oggetto di indagine, la vita, e l'impostazione dogmatica che fin dall'inizio questa nuova scienza ha assunto. Cosa questa che è stata messa molto bene in rilievo da Robert Olby nella sua "Storia della doppia elica" (1974), che prendiamo come testo guida per la nostra sintesi.

L'autore afferma che la tesi principale del suo libro è l'esistenza, nella biologia molecolare, di un contrasto "così stridente da determinare una trasformazione di paradigmi dalla 'versione del dogma centrale basato sulle proteine', alla 'versione del dogma centrale basato sul DNA'." Due concezioni metafisiche, diametralmente opposte, si sono succedute nella interpretazione del rapporto fondamentale relativo alla materia vivente: il rapporto DNA-proteine, entrambe accomunate dal medesimo concetto di dogma centrale ripreso dalla fisica. Ma, come sappiamo, mentre in fisica il dogmatismo fu imposto dall'indeterminismo della fisica quantistica, in biologia molecolare il dogmatismo è stato una conseguenza del determinismo riduzionistico riproposto, paradossalmente, proprio da chi lo aveva dovuto respingere dalla fisica: Schrodinger.

Un'altra contraddizione riguarda la semplificazione da parte della teoria del codice di una realtà così complessa come quella dei processi biochimici. Qui troviamo due questioni che si intersecano: 1) il ruolo degli acidi nucleici e delle proteine in questi processi, 2) l'interpretazione di questi processi mediante il concetto di codice. Se sub 1), la questione si ridusse alla semplice domanda: chi dirige tutta la faccenda, l'acido nucleico o la proteina? sub 2), la questione fu: come interpretare l'ordine relativo ai processi della vita?

Ora, l'interpretazione nei termini del codice fu imposta prima ancora di aver risposto alla prima domanda, ossia quando ancora non si sapeva che partito prendere tra il dogma centrale fondato sulla proteina e la nuova idea della nucleoproteina. L'interpretazione nei termini del codice fu, quindi, indifferente, nel suo esordio, a chi dovesse essere il portatore dell'informazione, e, in seguito, fu indifferente al fatto che depositari dell'informazione fossero prima le proteine, poi le nucleoproteine e, infine, gli acidi nucleici.

Sebbene la tradizione attribuisca a Schrodinger la paternità del concetto di codice, per il suo contributo del 1944 con il saggio dal titolo: "Che cosa è la vita?", già Kossel nel 1911, in una conferenza, aveva detto: "Quando si consideri che, attraverso la combinazione delle lettere, si può esprimere un numero infinitamente alto di pensieri, si può capire quale vasto numero di proprietà dell'organismo possa essere contenuto nel piccolo spazio occupato dalle molecole proteiche. Ciò permette anche di capire come le proteine delle cellule sessuali possano contenere, in una certa misura, una descrizione completa della specie e perfino dell'individuo".

Come si vede, si tratta di una prima formulazione della metafora del codice, in analogia con il linguaggio umano, ma incentrata sulle proteine. E nel 1938, il famoso W.T. Astbury, detto "John Bull" , studiando gli acidi nucleici e la loro combinazione con le proteine filamentose, giunse a concludere: "Con tutto quello che conosciamo oggi delle proteine filamentose in base agli studi con i raggi X e omologhi ..., come possono combinarsi così facilmente con le molecole degli acidi nucleici e conservare la loro configurazione filamentosa, è assolutamente naturale ammettere, perlomeno come prima ipotesi di lavoro, che essi formano il lungo rotolo di pergamena su cui è scritto il codice della vita".

John Bull anticipa Schrodinger, coniando il termine codice della vita, come metafora, assimilandolo a un rotolo di pergamena antico da decifrare. La sua preoccupazione, in relazione al rapporto acidi nucleici-proteine, si riflette nelle tesi per il dottorato (1939) della sua collaboratrice, Bell: "Probabilmente il più significativo progresso, verificatosi di recente, nel campo della biologia molecolare è l'aver realizzato che gli inizi della vita sono strettamente associati con l'interazione tra proteine e acidi nucleici". Il richiamo al concetto di interazione di Bohr sta qui a significare che Astbury e Bell ponevano acidi nucleici e proteine su un piano di parità. Da qui ad affermare che il gene era una nucleoproteina il passo fu breve.

A questo proposito Olby scrive: "Dato che la sintesi del DNA era associata con l'inizio della divisione della cellula e la duplicazione dei cromosomi, la versione del dogma centrale, basato sulle proteine, fu modificata per dare un ruolo importante al DNA. Si riteneva ormai che questa sostanza fosse indispensabile per la sintesi delle nuove molecole proteiche del gene. La sua partecipazione fu rappresentata da Astbury in termini di struttura sulla quale la catena polipeptidica di un gene, già esistente, era tenuta nella forma distesa, così da poter fungere da stampo per la formazione di una nuova e identica catena".

Olby dice che Gasperson e Brachet ammisero in maniera analoga che "l'acido nucleico fungeva da "matrice" per la riproduzione delle proteine importanti" . E commenta: "Quest'ipotesi sul ruolo del DNA e della proteina si può esprimere in termini di "teoria del gene come nucleoproteina". La sua forza stava nel fatto che, in essa, sia il DNA che la proteina avevano funzioni importanti e, nelle catene polipeptidiche, veniva mantenuta la specificità genetica della sequenza aminoacidica".

La teoria della nucleoproteina, pur esprimendo la giusta esigenza di rendere ragione del rapporto tra acidi nucleici e proteine, non era però in grado di risolverlo, potendo solo ammettere una generica interazione. In questo senso, essa ha rappresentato la soluzione eclettica di contro alla soluzione unilaterale del precedente dogma centrale fondato sulle proteine. Lo studio dei virus portò, però, alla scoperta che l'agente infettante era l'acido nucleico (RNA) e non la proteina di rivestimento; e ciò spinse a ritenerlo il responsabile della specificità genetica; ma il dibattito che ne seguì non portò ad alcun risultato, così che le posizioni più diverse poterono convivere in biologia molecolare.

Ad esempio, Avery, in una lettera al fratello, del 1943, scriveva: "Gli acidi nucleici non sono soltanto importanti dal punto di vista strutturale, ma sono sostanze funzionalmente attive nel determinare le attività biochimiche e le caratteristiche specifiche delle cellule". E aggiungeva: "Sembra un virus, potrebbe essere un gene". Insomma valutava con i piedi di piombo: sapeva che era un problema "irto di implicazioni". Accanto a una posizione così problematica, troviamo però, ad esempio, quella assolutamente meccanicistica e deterministica di Dobzhansky il quale pretendeva un modello di meccanismo che predeterminasse persino le mutazioni: "un meccanismo per produrre mutazioni, non già a caso, ma in una direzione predeterminata"!
   
Alla fine prevalse il determinismo riduzionistico di Watson e Crick, con la soluzione della doppia elica di DNA del 1953, nonostante, ad esempio, il dubbio espresso da Cooper nel 1955: "Mi piacerebbe sapere se la decisione, così ampiamente diffusa oggi, che l'acido nucleico sia il principio trasformante, sia stata presa, di fatto, in seguito a sperimentazioni senza alcuna possibilità di equivoci, o, se, al momento attuale, si tratti di nulla di più di un accordo raggiunto mediante votazione".

Il dubbio di Cooper è serio e dovrebbe essere sciolto, anche se dubitiamo che ciò possa accadere, anche perché lo stesso Olby lo lascia cadere e nessun altro, per quanto ne sappiamo, lo ha più espresso. Sta di fatto che la soluzione di Watson e Crick s'impose anche con il beneplacito dei fisici quantistici. Olby dedica un capitolo sulla migrazione dei fisici delle particelle alla biologia molecolare, influenzati da Bohr e Schrodinger. Egli dice che lo storico Stent ha scritto un libro per dimostrare che la biologia molecolare è nata perché tre fisici, Bohr, Schrodinger e Delbruck erano alla ricerca di paradossi e pensavano di trovarli in biologia. A sua volta Olby avvalora la seguente tesi: i fisici prestati alla biologia, che costituirono il "gruppo del fago", si erano attribuiti "il compito di analizzare un fenomeno universale della vita, la replicazione genetica, nella forma più semplice possibile, scoprendo così il meccanismo (!) paradossale grazie al quale singole (!) molecole possono riprodurre molecole identiche con enorme fedeltà: un processo di copiatura così sicuro da far pensare che fossero coinvolte altre leggi della fisica".

A nostro avviso la tesi di Stent e la tesi di Olby non si contraddicono, in quanto, se è vero che i fisici in biologia cercavano nuove leggi, è anche vero che l'impostazione quantistica li orientava verso la ricerca di paradossi. Però occorre distinguere: mentre Delbruck partecipò attivamente alla indagine sperimentale sui fagi e quindi divenne un biologo molecolare, Bohr e Schrodinger ne rimasero al di fuori, assumendosi il compito dell'orientamento teorico, ma esprimendo due posizioni diverse: il primo accontentandosi di esportare nella biologia molecolare la sua concezione della complementarità, il secondo pretendendo di trovare nella biologia molecolare le  leggi che regolano l'ordine dall'ordine.

Riguardo a Schrodinger, Olby è dello stesso avviso: "Ho cercato di dimostrare -egli scrive- che Schrodinger sperava che l'organismo fornisse in qualche modo quelle condizioni "ideali" in cui regnava l'ordine e che il processo della trasmissione ereditaria obbedisse alle leggi che regolano "l'ordine dall'ordine"." E, riguardo al gruppo del fago, guidato da Delbruck, allievo di Bohr, sembra proprio che esso abbia preferito l'impostazione di Schrodinger, ritenendo di aver a che fare con un meccanismo che garantisse alle singole molecole di replicarsi. (Continua)

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Da "Il caso e la necessità - L'enigma risolto - Volume terzo  Biologia" (1993-2002) Inedito

1 commento:

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