sabato 29 gennaio 2011

Realtà, realismo e realismo ingenuo II

II  Il rifiuto del realismo ingenuo per i tempi duri del convenzionalismo fittizio della fisica

Il termine di "realismo" ha avuto fin dall'antichità il privilegio di assumere diverse maschere, dando luogo a molta confusione e incertezza. Per farcene un'idea rivolgiamoci al "Dizionario di filosofia" di Abbagnano, uscito nel 1961. Fino dalle sue origini, il termine di "realismo" non ha privilegiato nessuno  dei due poli della opposizione materialismo-idealismo, tanto che "Ad es. Platone è stato classificato realista perché ammette la realtà delle idee (...); ma è stato anche definito idealista in quanto si tratta, per l'appunto, di idee".

A questo proposito, Abbagnano dimentica di citare Berkeley che si diceva realista pur negando l'esistenza della materia, mentre su Kant osserva che il suo realismo empirico "ha assunto vari nomi rimanendo sostanzialmente lo stesso, cioè il riconoscimento della esistenza delle cose indipendentemente dall'atto di conoscere". Però non dice che Kant, eliminando la "cosa in sé" come oggetto di conoscenza, la sostituisce con i "fenomeni", l'esistenza dei quali fa dipendere dalla possibilità dell'intelletto umano, cadendo nel soggettivismo.

Per i nostri scopi è comunque rilevante vedere come Abbagnano interpreta l'idea del mondo esterno indipendente dalla conoscenza umana, riaffermata da G. F. Moore nel 1902 nella forma della "indipendenza del conosciuto dall'atto psichico con cui è conosciuto". "Questa indipendenza veniva riconosciuta come la tesi del R. ingenuo (...) da G.Schuppe" (1910), mentre "U. Kulpe chiamava lo stesso punto di vista R. scientifico" (1920). "Infine lo stesso tipo di R. è chiamato materialismo dai filosofi sostenitori del materialismo dialettico...".

Come si vede, circa un secolo fa la nozione di "realismo ingenuo" affiancava altre nozioni di realismo e non pativa quel discredito che attualmente ha presso quei filosofi e scienziati che si occupano di teoria della conoscenza. Ma come è potuto accadere che oggi il "realismo ingenuo" sia tanto esecrato e temuto dalla filosofia della scienza? Per rispondere a questa domanda dobbiamo partire da una circostanza storica specifica: il prevalere in fisica della conoscenza convenzionale e fittizia, che non ha più tenuto in alcun conto la realtà naturale. Su questa base, l'idea stessa della realtà di un mondo esterno indipendente dalla coscienza diventava pericolosa; perciò il termine stesso di "realismo" è stato mortificato affiancandogli l'aggettivo "ingenuo".

Sono almeno tre i presupposti storici che favoriscono l'attuale opposizione convenzionalistica al realismo scientifico, al quale è stata applicata la maschera volutamente dispregiativa di "realismo ingenuo".

1) Il primo è una diretta conseguenza della proibizione teologica della conoscenza reale che, duramente imposta a Galileo quasi quattro secoli fa, non ha mai smesso di intimidire la comunità scientifica, facendo tremare i polsi a parecchi studiosi e scienziati.

2) Il secondo ha a che vedere con la difficoltà soggettiva di ottenere risultati scientifici con strumenti epistemologici inadeguati, quali il determinismo riduzionistico e l'indeterminismo altrettanto riduzionistico, e con strumenti teorici convenzionali e irrealistici come i modelli matematici puri della fisica teorica contemporanea.

3) Il terzo, infine, ha a che vedere con la reale e oggettiva difficoltà di raggiungere una conoscenza completa della realtà naturale, difficoltà che dipende dagli oggettivi limiti storici della capacità scientifica della specie umana. In fin dei conti è solo da qualche secolo che l'uomo fa scienza. Perciò non si capisce la ragione di questa fretta, manifestata soprattutto dai fisici teorici, di trovare la teoria ultima e definitiva che dovrebbe spiegare tutto (in ultima istanza!).

Questi presupposti storici hanno condizionato la scienza teorica, spingendola nella direzione delle utili convenzioni, delle metafore ad hoc, del rifiuto più o meno palese del realismo scientifico, soprannominato "realismo ingenuo". Questa tesi sembra essere confermata anche dalla lettura di altre due voci del Dizionario di Abbagnano: quella di "realtà" e quella di "Conoscenza".

Cominciamo dalla Realtà: "Nel suo significato proprio e specifico il termine designa il modo di essere delle cose in quanto esistano al di fuori della mente umana e indipendente da essa". Ecco, teniamo bene a mente questa definizione, perché alla fine il significato di realtà che prevarrà presso la comunità dei fisici sarà di tutt'altra natura. Nel frattempo ci limitiamo a osservare che gli attuali professori di filosofia della scienza giudicherebbero una simile definizione "realismo ingenuo" e nel suo senso più dispregiativo.

Come ricorda Abbagnano, il termine "realitas" fu coniato dalla tarda scolastica e precisamente da Denis Scoto, che la chiamò hecceitas per distinguerla dal suo opposto: l'idealità. Quindi precisa: "Il problema cui direttamente ha dato luogo la nozione di R. [realtà] è quello della esistenza delle cose del "mondo esterno". Questo problema è nato con Cartesio cioè col principio cartesiano che oggetto della conoscenza è soltanto l'idea".

Così, la realtà del mondo riflessa nell'idea venne capovolta da Cartesio, tanto che, per giustificare la realtà delle cose, egli fu costretto a fare "ricorso alla veridicità di Dio: nella sua perfezione Dio non può ingannarci e non può permettere che ci siano in noi idee che non rappresentano nulla"! E questo è uno dei tanti sofismi costruiti dal pensiero umano ancora incapace di conoscere la realtà.

Comunque, a chiudere la questione, secondo Abbagnano, ci avrebbe pensato il filosofo Heidegger sostenendo che se le cose valgono per la loro utilizzabilità per l'uomo, questo carattere utilitaristico non appartiene alle cose solo in rapporto all'uomo, ma costituisce la loro stessa essenza. Questo filosofo avrebbe avuto anche il "merito" di eliminare il "realismo" in quanto falso problema. Come riassume Abbagnano: "Il problema dell'esistenza del mondo esterno o delle cose si elimina quindi da sé quando sia eliminato il presupposto fallace del "soggetto senza mondo" cioè il presupposto che l'uomo non sia già sempre, e prima di tutto un essere nel mondo".

Insomma, il problema di una realtà esterna alla coscienza verrebbe eliminato dall'analisi di Heidegger, che per Abbagnano ha "mostrato come tale problema sorga dal presupposto di una tesi filosofica infondata, cioè la tesi di un "soggetto senza mondo" o in altre parole da un'esistenza dell'uomo che non consista nel rapporto con il mondo".

Siamo qui di fronte a un autentico qui pro quo. Il problema è sempre stato l'esatto opposto, quello di un mondo senza soggetto: l'uomo. Ossia, come conciliare la dipendenza del mondo dalla percezione umana, dalla sua sensazione, dal suo intelletto, quando il mondo è esistito molto prima dell'uomo stesso. Heidegger si è, per così dire, preoccupato del rovescio della medaglia, tralasciando la vera questione: quella dell'esistenza del mondo al di fuori della presenza dell'uomo e della sua coscienza, esistenza provata dal fatto che il mondo senza l'uomo esiste da miliardi di anni, mentre l'uomo cosciente, ad essere benevoli, si può dire che esista da un paio di millenni, e ad essere malevoli si potrebbe dire che neppure per due millenni sia esistito cosciente come specie,  ma, solo parzialmente, come rarità statistiche, come rari singoli individui.

Si tratta della lunga evoluzione della materia nel cosmo, che dura da miliardi di anni, e l'uomo vi compare come prodotto ultimo e di breve durata. Ma con l'uomo compare anche la possibilità della conoscenza di questo mondo reale. Però l'uomo non arriva tanto facilmente alla conoscenza reale. Per secoli è riuscito a scambiare per realtà i suoi fantasmi, e solo quando ha potuto evitarlo ha ottenuto risultati scientifici, pur in mezzo a oroscopi, fattucchierìe e magìe (Galileo e Newton insegnano). Quindi è sempre esistito, eccome, un problema di conoscenza reale e di realtà della conoscenza! Che potrebbe anche rimanere irrisolto per lungo tempo se la comunità scientifica continuerà a negarne all'infinito l'esistenza, favorendo il pluralismo dei più diversi "paradigmi", tutti comunque accomunati dal convenzionalismo fittizio.

E così, come ci "rassicura" Abbagnano, a chiudere definitivamente la faccenda nel secolo scorso, è intervenuta la delicatezza elefantina del neoempirismo logico che ha dichiarato il problema della realtà un "Pseudo-problema". Tipi come Carnap hanno rigettato un dibattito millenario sulla realtà o irrealtà del mondo esterno e sulla contrapposizione tra materialismo e idealismo, considerandole come "pseudoasserzioni che non si prestano a una verifica sperimentale".

Prendiamo ora in considerazione la seconda voce, Conoscenza, partendo dal principio che la "dottrina aristotelica si può considerare come la forma tipica dell'interpretazione della C. [conoscenza] come identità con l'oggetto. Tale interpretazione domina, con l'eccezione degli stoici, il corso ulteriore della filosofia greca". Ma, se alle origini del pensiero prevalse la concezione di Aristotele, della conoscenza fondata sulla identità con l'oggetto, diversi sono stati i punti di vista sulla conoscenza, nella storia del pensiero umano.

Se ci limitiamo alla sola era moderna e all'inizio delle scienza naturali, secondo Abbagnano, nel 1600, a partire da Spinoza, Locke, Leibniz, ecc. tutti considerarono l'accordo dell'ordine delle idee con l'ordine delle cose, anche se venne operata una distinzione tra le scienze esatte come la matematica, soprattutto la geometria, e le scienze empiriche che hanno per oggetto i fenomeni naturali. Solo per queste ultime era necessario stabilire l'accordo tra l'ordine delle idee e l'ordine delle cose. Comunque, il principio che accomunava tutti era che la conoscenza si doveva modellare sulle cose.

Ma con Kant e Hume la musica cambia: per il primo è l'ordine delle cose che si deve modellare sulle condizioni della conoscenza (soggettivismo kantiano); riguardo al secondo, Abbagnano scrive: "Eliminata da Berkeley la sostanza materiale e da Hume ogni specie di sostanza, il collegamento tra le idee veniva ad esaurire la funzione dell'attività cognitiva. Così Hume ritiene che ogni operazione cognitiva sia un'operazione di connessione fra le idee: operazione di connessione è il ragionamento per il quale si mostra il legame che le idee hanno tra di loro, indipendentemente dalla loro esistenza reale (sic!); operazione di connessione tra le idee è la conoscenza della realtà di fatto".

Nella sua ricostruzione Abbagnano non coglie il vero nodo fondamentale: e cioè che la connessione di idee fondata sul determismo riduzionistico, ossia sul rapporto di causalità applicato alle singole cose, accomuna tutti i pensatori, filosofi e scienziati dal 1600 in poi, anche se per Hume la causalità è solo un effetto soggettivo dell'abitudine. Ma Abbagnano è anche un kantiano, che concepisce i fenomeni e non la "cosa in sé" che, per definizione, è estranea ad ogni rapporto conoscitivo. Ma, allora, che cosa si deve intendere per conoscenza? "Ciò che si chiama, con termine abbreviativo, conoscere, è un insieme di operazioni, talora molto diverse tra loro, che, in campi diversi, mirano a far emergere, nelle loro caratteristiche proprie, certi aspetti specifici".

Con questa soluzione operazionistica, Abbagnano cancella il problema della conoscenza; e, con l'aiuto del suo filosofo preferito, ne suona la campana a morto: "Nell'ambito della fenomenologia, Heidegger parla infatti di annullamento del problema della conoscenza" e con esso del "problema della realtà". E, dopo aver affermato che molti condividono questa posizione, Abbagnano afferma soddisfatto: "Queste idee hanno agito e continueranno ad agire potentemente nella filosofia contemporanea e sono alla base di quella dissoluzione del problema della C. [conoscenza] che è una delle sue caratteristiche. La dissoluzione di questo problema si è operata in favore da un lato della logica, dall'altro della metodologia delle scienze".

Insomma, per Abbagnano, il problema della conoscenza, che era rimasto irrisolto, chiuso tra i due perni di una tenaglia: quello della induzione di Hume non garantita dalla causalità per abitudine, e quello di Kant della demarcazione tra i fenomeni dell'esperienza sensibile e l'a priori dell'intelletto puro, ha finito con l'essere annullato dalla nuova logica formale: così si è imposta una generica metodologia, che si è scissa in una miriade di approcci diversi alle varie discipline scientifiche. Questa metodologia ha modificato gli scopi della scienza moderna: non più la determinazione della necessità reale, e neppure la spiegazione o semplice descrizione, ormai si tratta solo di previsioni, obiettivo posto a suo tempo da Francesco Bacone e riproposto in epoca moderna da Comte, come ricorda Abbagnano.

E non è finita: a forza di rinunce, si è arrivati alla situazione ritenuta ideale per Abbagnano: "Lo sviluppo ulteriore della scienza ha eliminato il residuo di concezione rappresentativa che ancora rimaneva nelle dottrine di Mach e di Hertz. Già nel 1930 uno dei fondatori della meccanica quantistica, Dirac, poteva affermare: "Il solo oggetto della fisica teorica è di calcolare risultati che possono esser messi a confronto con l'esperienza ed è affatto inutile che si sia data una descrizione soddisfacente dell'intero sviluppo del fenomeno".

In questo modo si è compiuto il passaggio definitivo alla fase della scienza convenzionale e fittizia, il cui carattere è così sintetizzato: "A questo punto la teoria della C. [conoscenza] si è completamente risolta nella metodologia delle scienze. Questo significa che, mentre il problema della C. come problema di un oggetto "esterno" da raggiungere a partire da qualche dato "interno" si è andato dissolvendo, si è proposto in sua vece il problema della validità delle procedure oggettive dirette all'accertamento e al controllo degli oggetti nei campi diversi d'indagine (!)".

La cosiddetta "metodologia delle scienze" ha significato che ogni disciplina scientifica è andata per la sua strada, creando i suoi metodi, spesso tra loro contrapposti e in competizione, metodi che Kuhn giungerà a nobilitare e legittimare come "paradigmi per risolvere rompicapi". E così la crescente pletora di gruppi di scienziati ha creato innumerevoli paradigmi, e con essi l'inevitabile pluralismo, formando quella torre di Babele che ospita l'attuale comunità scientifica.

Ma, allora, perché applicare preventivamente uno sbarramento contro l'inesistente pericolo del realismo, segnandolo con il marchio di "ingenuo"? Forse perché chi è addentro alle "segrete cose" della comunità scientifica teme che per la scienza convenzionale e fittizia siano iniziati tempi molto duri?

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Scritto nel 2011

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