mercoledì 3 novembre 2010

Menzogna o verità: il dilemma irrisolto di Umberto Eco

Prendiamo spunto dall'uscita dell'ultimo libro di Umberto Eco (2010) per ricordare i suoi esordi con uno scritto di molti anni fa  "Il nome della rosa".

I petali della gnoseologia contemporanea

Possiamo considerare "Il nome della rosa" una meta­fora, forse involontaria, della confusione gnoseologica contemporanea. I suoi "petali" non sono altro che le vecchie e nuove concezioni del­la filosofia della scienza. Cominciamo con la più vecchia di tutte, il determinismo riduzionistico che pone come oggetto della conoscenza il singolo oggetto, il singolo individuo.

Allora il riconoscimento del singolo cavallo, chiamato Brunello, "sarà la conoscenza piena, l'intuizione del singolare. Così io un'ora fa ero pronto ad attendermi tutti i cavalli, ma non per la vastità del mio intelletto, bensì per la pochezza della mia intuizione. E la fame del mio intelletto è stata saziata solo quando ho visto il ca­vallo singolo…" Così parla il saggio frate Guglielmo; e il suo no­vizio Adso conferma: "Altre volte lo avevo udito parlare con molto scetticismo delle idee universali e gran rispetto per le cose individuali".

Se il determinismo riduzionistico ha sempre preteso la connessione causale a livello delle singole cose, Guglielmo si discosta da questa sicurezza, avvicinandosi allo scetticismo humiano quando afferma: "se solo l'intuizione individuale è giusta, il fatto che le cause del­lo stesso genere abbiano effetti dello stesso genere è proposizione difficile da provare". Dunque lo scetticismo sulla connessione di cau­sa ed effetto è il secondo petalo della rosa di Umberto Eco.

Frate Guglielmo dice: partendo dai fatti "poi proverò a legarli tra loro, se mai sia possibile, perché è difficile dire quale effetto sia dato da quale causa; basterebbe l'intervento di un angelo per cambia­re tutto, perciò non c'è da meravigliarsi se non si può dimostrare che una cosa sia la causa di un'altra. Anche se bisogna sempre pro­varci come sto facendo". Allora Adso chiede: "A Parigi hanno sempre la risposta vera?" "Mai, risponde Guglielmo, ma sono molto sicuri dei loro errori". E questo terzo petalo è l'inconfondibile metodo della "falsificazione" di Popper.

A un certo punto Adso esprime questa impressione "che Guglielmo non fosse affatto interessato alla verità, che altro non è che l'ade­guazione tra la cosa e l'intelletto. Egli invece si divertiva a imma­ginare quanti più possibili fosse possibile". Non c'è dubbio, questo quarto petalo è il possibilismo epicureo fondato sul caso. Ma il ter­zo e il quarto petalo si confondono nella mente del frate come confer­ma il titolo molto significativo di un paragrafo: "Dove Alinardo sem­bra dare informazioni precise e Guglielmo rivela il suo metodo per arrivare a una verità possibile attraverso una serie di errori sicuri”.

Siamo così arrivati allo stelo della rosa che sostiene tutti i pe­tali osservati e altri ancora: si tratta del piccolo cabotaggio della scienza fondato sui paradigmi di Khun. Dice infatti Guglielmo: "E io invece trovo il diletto più gaudioso nel dipanare una bella e intri­cata matassa. E sarà anche perché in un momento in cui, come filoso­fo, dubito che il mondo abbia un ordine, mi consola scoprire, se non un ordine, almeno una serie di connessioni in piccole porzioni degli affari del mondo".

La morale della favola è che l'assassino, infine scoperto, è così apostrofato dal frate detective: "Tu sei il diavolo". "Si, ti hanno mentito. Il diavolo non è il principe della materia, il diavolo è l'arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene presa dal dubbio". La morale della favola è che bisogna temere "i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al lo­ro posto. Jorge ha compiuto un'opera diabolica perché amava in modo così lubrico la sua verità da osare tutto pur di distruggere la men­zogna".

Insomma, diabolica sarebbe la ricerca della verità che ha come le­gittima conseguenza la distruzione della menzogna. Ma Eco finge di non sapere che la vera questione della storia dell'uomo cosciente è stata un'altra, come dimostra il "caso Galileo": che se i fanatici privi di verità sono apparsi sempre pronti a morire e soprattutto a uccidere, gli studiosi non sono facilmente disposti a morire per la verità, ma piutto­sto ad accettare l'impostura per vivere. E per "morire" si deve inten­dere non solo finire nei roghi di una qualche inquisizione, ma anche in senso sociale. Per amore della verità scientifica ci si può trova­re isolati e in miseria, mentre per amore di una buona borsa e di una buona nomea si può accettare l'impostura scientifica. E questo non favorisce certo la conoscenza.

Ma vediamo, infine, di annusare il profumo della rosa di Umberto Eco, che emana dalle conclusioni: "Forse il compito di chi ama gli uomini è di fare ridere la verità (!), perché l'unica verità è im­parare a liberarsi della passione insana per la verità". Altro che profumo di rosa! Questo sembra l'odore del minestrone di Feyerabend, cucinato con tutti gli ingredienti della passione insana per l'impostura che ha dominato tutto il Novecento.

Se Umberto Eco, nella sua rosa, ha messo tutto, così che il principale personaggio, il frate Guglielmo, appare eccessivamente "versa­tile" passando da una concezione all'altra, non ci rimane che doman­darci: qual è la sua posizione? Come vedremo, Eco non esprime altra posizione che il suo disprezzo per la verità (disprezzo giustificato da una lunga storia di menzogne fatte passare per verità) lasciando aperta, si fa per dire, la sola alternativa: o è il caso o è la divi­na provvidenza. Così fa dire a Guglielmo: "Sono arrivato a Jorge at­traverso uno schema apocalittico che sembrava reggere tutti i delitti, eppure era casuale. Sono arrivato a Jorge cercando un autore di tut­ti i crimini e abbiamo scoperto che ogni crimine aveva in fondo un autore diverso, oppure nessuno. Sono arrivato a Jorge inseguendo il disegno di una mente perversa e raziocinante, e non v'era alcun dise­gno, ovvero Jorge stesso era stato sopraffatto dal proprio disegno iniziale e dopo era iniziata una catena di cause, e di concause, e di cause in contraddizione tra loro, che avevano proceduto per conto proprio, creando relazioni che non dipendevano da alcun disegno. Dove sta tutta la mia saggezza? Mi sono comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che  non vi è ordine nell'universo".

Partendo dal presupposto riduzionistico che la conoscenza è conoscenza di singo­le cose e di singoli eventi, la scoperta del disordine e del caso a livello della singolarità, invece di costituire la base di partenza per la comprensione dell'ordine e della necessità a livello dei com­plessi, viene presa come prova, ingannevole, che l'universo è domi­nato dal disordine e dal caos. Questo è l'errore in cui cade Gugliel­mo. Non a caso Adso obietta: "Ardii, per la prima e l'ultima volta in vita mia, una conclusione teologica: "Ma come può esistere un es­sere necessario totalmente intessuto di possibile? Che differenza c'è allora tra Dio e la sua assoluta disponibilità rispetto alle sue stes­se scelte, non equivale a dimostrare che Dio non esiste?" Detto in poche parole: se non c'è ordine nell'universo, ciò equivale a dire che Dio non può esistere. E Guglielmo per tutta risposta: "Come potrebbe un sapiente continuare a comunicare il suo sapere se rispondesse di sì alla tua domanda?"

A questo punto Eco lascia al personaggio minore le conseguenze più rilevanti da trarre dall'ultima frase del personaggio principale. In­fatti Adso, nel chiedere precisazioni, svela l'essenza della questio­ne: "Intendete dire che non ci sarebbe più sapere possibile e comuni­cabile, se mancasse il criterio stesso della verità, oppure che non potreste più comunicare quello che sapete perché gli altri non ve lo permetterebbero?" Poiché il romanzo termina qui senza che il saggio Guglielmo risponda a questa domanda del suo novizio, dobbiamo pensa­re che l'autore abbia già dato la risposta con la domanda stessa, e cioè che la verità o è un'impostura teologica perché l'ordine divino non esiste oppure è il caso, quindi, un'illusione.

Altrimenti dovremmo pensare che egli non abbia voluto comunicare una di quelle verità non consentite, ma non ci pare proprio il caso. Oggi, il mondo oscilla come un pendolo tra la certezza dell'ordine divino e l'incertezza del disordine probabilistico. E Umberto Eco si adegua. (Scritto nel 1995)
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