domenica 31 ottobre 2010

Dalla casualità dei singoli alla necessità dei grandi numeri


Abbiamo visto che il principio darwiniano della lotta per l'esistenza impone alla selezione individuale una dire­zione benefica, mentre, in realtà, la selezione del singolo individuo è il risultato casuale delle infinite correlazioni tra organismi e ambiente, in tutte le direzioni. Perciò dire che gli individui sopravvissuti sono i più adattati o, viceversa, che gli individui più adattati all'ambiente, ecc. hanno maggiori probabilità di sopravvivenza, significa affermare qualcosa di arbitrario, perché qualsiasi organismo può trovare nei "rapporti infinitamente complessi" ovvero nel "groviglio" della natura, la propria fine accidentale o, al contrario, vantaggi di sopravvivenza persino insperati. Se, invece, da ciò ricaviamo che le specie che si conservano sono in media rappresentate da individui adattati, ciò ha valore solo per il complesso ed ha un valore solo descrittivo, non esplicativo.

Il determinismo ha sempre preteso determinare la necessità complessiva mediante la necessità dei singoli rapporti tra singoli oggetti, individui: così, se conside­riamo un singolo segmento del groviglio della natura, il determinista ci assicura di poter trovare concatenazioni di cause ed effetti. Per spiegarci con un esempio, citato da Darwin, leggiamo che cosa afferma Newman: "In prossimità dei villaggi e delle piccole città ho trovato nidi di bombi in maggior numero che altrove e attribuisco questo fatto al maggior numero di gatti che distruggono i topi". Darwin commenta: "Dunque è perfettamente credibile che la presenza di grandi gruppi di felini in un dato territorio possa condizionare, tramite l’intervento dei topi prima e delle api poi, la densità di taluni fiori del territorio" ("L'origine delle specie").

Ora, il biologo determinista considera questa catena: abitanti-gatti-topi-api-fiori una perfetta catena causale, perciò crede di poter dire orgogliosamente: ho scoperto la causa della maggiore o minore presenza di taluni fiori. Ciò che non dice è che ogni elemento di questa catena è casuale: così per le api e i fiori è puramente accidentale che nei dintorni si sia formato un insediamento umano col suo seguito di gatti. Quindi, a rigor di termini, ciò che Newman ha scoperto è un limitato episodio di cieca necessità derivato da circostanze puramente casuali. Del resto, singoli eventi casuali danno sempre luogo a necessità da nessuno volute e impreviste.

La questione difficile per Darwin era: come passare dalle casuali, infinite variazioni alle regolarità necessa­rie, riscontrabili nelle specie? Engels, nella Dialettica della natura, dice che, partendo dalle casuali, infinite variazioni, Darwin ha messo in discussione il concetto di specie, rigido e metafisico, ha messo in discussione la stessa idea di rigida necessità, di assoluta necessità. Per Engels, dopo la rivoluzione darwiniana, l'unica soluzione poteva essere trovata ritornando alla dialettica hegeliana del rapporto caso-necessità, secondo la quale la necessità si manifesta attraverso la casualità e la casualità attraverso la necessità, e la casualità è a sua volta la vera causa della necessità.

Dominato dal modo di vedere deterministico, Darwin non fu in grado di comprendere il nesso tra il caso e la necessità, perciò ne fu ossessionato. Eppure era vicino alla soluzione. Abbiamo già rilevato che egli introduce un concetto stati­stico quando sostiene che la possibilità che compaiano casuali variazioni utili nell'allevamento "è tanto più grande quanto più alto è il numero di individui che vengono allevati". Che cosa gli impedì allora di compiere il passo successivo e vedere che ciò che l'uomo può realizzare intenzionalmente su gruppi di animali relativamente piccoli, in natura poteva realizzarsi statisticamente grazie ai grandi numeri e ai lunghi periodi di tempo? L'impedimento, ancora una volta, veniva dal determinismo ottocentesco, il quale considerò secondaria l'inferenza statistica, in quanto la vera spiegazione doveva essere trovata nella connessione di causa ed effetto.

E così, partendo dalla analogia fra la selezione domestica e la selezione naturale, Darwin non riuscì a concepire la fondamentale differenza esistente fra le due forme di selezione: mentre nel primo caso è l'uomo a volgere la casualità in necessità scegliendo le variazioni secondo uno scopo, nel secondo caso a volgere la casualità in neces­sità è la legge statistica dei grandi numeri. Per usare un'immagine immediatamente comprensibile: è la differenza che passa fra un bersaglio centrato in maniera intenzionale al primo colpo, da un tiratore scelto, e un bersaglio centrato dopo molti colpi tirati a casaccio da molti tiratori improv­visati.

Ciò che nel primo caso è economico, nel secondo è molto dispendioso. Nella realtà dell'allevamento, però l'uomo non può fare tutto da sé come il tiratore scelto, altrimenti egli sarebbe dominatore assoluto della natura. Ciò perché, sebbene l'allevatore imponga una direzione finalizzata alla selezione di una razza, egli non può fare a meno di servirsi del reale movimento naturale, ossia delle variazioni casuali dei caratteri in ogni singolo animale. Quindi egli può solo scegliere fra tanti casi. Ma qui sta la vera ed essenziale differenza tra la selezio­ne artificiale e la selezione naturale: e cioè che, appena un singolo animale presenta casualmente un carattere che può interessare l'allevatore, viene posto al riparo dal "groviglio della natura", e quindi sottratto, per quanto possibile, alla cieca necessità naturale prodotta dal caso. Perciò all'uomo è sufficiente la statistica dei piccoli numeri: il suo intervento riduce, infatti, lo spreco tipico dei rapporti naturali. In natura, al contrario, la selezione avviene con grande dispendio, e quindi è possibile solo come statistica dei grandi numeri.

L'estinzione di un enorme numero di complessi di orga­nismi, dall'origine della vita fino ad oggi, è la più precisa testimonianza che la natura seleziona a casaccio con infiniti "colpi", la maggior parte dei quali "va a vuoto". Questa è la selezione naturale, i cui risultati necessari sono soltanto statistici. Di conseguenza c'è molto dispendio di materia organica. Lo spreco è enorme, giacché, in tal modo, ogni sorta di organismi e di complessi di organismi, può originarsi, ed essere altresì eliminata in tempi più o meno brevi o più o meno lunghi.

La selezione naturale, in quanto è definita come deter­minata dalla lotta per la sopravvivenza, considerata quest'ultima come benefica per i singoli organismi, non può rendere ragione di questo dispendio. Darwin, però, fornì un'altra definizione di selezione naturale, che avrebbe potuto permettergli di arrivare a concepire il dispendio. Nel capitolo dedicato alla selezione naturale, egli scrive: "Possiamo dubitare (ricordando che nascono molti più indivi­dui di quanti possano sopravvivere) che gli individui che possiedono un vantaggio qualsiasi sugli altri, sia pure molto piccolo, abbiano migliori probabilità di sopravvivere e di propagare la loro discendenza? D'altro canto possiamo essere certi che qualsiasi variazione nociva, sia pure in minimo grado, verrebbe immancabilmente distrutta". "A questa conservazione delle variazioni favorevoli e alla eliminazione delle variazioni nocive ho dato il nome di selezione naturale". E ancora: "Le variazioni né utili né dannose non dovrebbero subire l'influenza della selezione naturale e dovrebbero rimanere allo stato fluttuante come vediamo, forse, nelle specie polimorfe".

In questa definizione, Darwin chiama selezione naturale la conservazione delle variazioni utili e la eliminazione di quelle dannose, e aggiunge che la conservazione fluttuante delle variazioni neutrali non subisce l'influenza della selezione naturale. Allora, mentre nella prima definizione, che abbiamo già considerato, troviamo sia "la lotta per l'esi­stenza", sia i "rapporti infinitamente complessi" e, in relazione a entrambi, la conservazione delle variazioni utili, qui troviamo una definizione della selezione naturale intesa come conservazione-eliminazione.

Se, ora, ricapitoliamo, abbiamo uno schema di tre tipi di variazioni che riassumono tutte le variazioni possibili, a seconda degli effetti che producono sui singoli organismi: e cioè variazioni vantaggiose, nocive e neutrali. Da notare che la vita conserva sia quelle vantaggiose sia quelle neutrali, mentre quelle nocive vengono distrutte. E ciò è tautologico: non sarebbe certo nociva una variazione che si conservasse, così come non sarebbe vantaggiosa o neutrale una variazione che venisse distrutta. Lo schema, in sostanza, non fa che descrivere una situazione che deve essere compresa. Ancora, se chiamiamo selezione la conservazione di variazioni vantaggiose e l'eliminazione di variazioni nocive, non facciamo che aggiungere una parola per sintetizzare un dato empirico osservabile. Perciò la novità introdotta da Darwin non consiste nel concetto di selezione naturale, che rappresenta soltanto una tautologia, ma nel concetto di variazione casuale dei caratteri, ciò che permette una mutazione degli organismi e una conseguente evoluzione delle specie.

Ma è proprio questa evoluzione delle specie che va compresa, a partire dalle variazioni casuali dei caratteri dei singoli organismi. A questo scopo, il concetto di selezione naturale non aiuta, perché non spiega niente, e quando vuole spiegare è costretto a porre una causa fittizia, come la lotta per l'esistenza, o, ancor peggio è persino costretto a rifugiarsi nel finalismo, come in questa affer­mazione di Darwin: "L'uomo seleziona solo a proprio beneficio: la natura solo a beneficio dell'essere che accudisce".

Nei confronti di Darwin, forse, nessuno ha mai osservato che nel paragone da lui utilizzato tra l’allevamento delle razze e l'evoluzione delle specie, ha valore soltanto la circostanza che in entrambi i casi i punti di partenza sono le variazioni casuali, ma, a riguardo del risultato, non si può attribuire alla natura il modo di operare dell’uomo, errore che ci portiamo dietro dal tempo di Aristotele. Dare alla natura questa attribuzione significa accettare il finalismo aristotelico, significa affermare che, come l'uomo, la natura agisce con un scopo. Detto per inciso, nelle due righe sopracitate, Darwin riesce a compiere due errori: il primo perché attribuisce alla natura uno scopo, il secondo perché crede persino che questo scopo sia diverso e superiore a quello dell'uomo. La natura non è qui soltanto il complesso di tutte le forme materiali inorganiche e organiche, per cui, se fosse benefica nei confronti dei singoli animali, vorrebbe semplicemente dire che questi in quanto "natura" si autobeneficano, ma è una personificazione dell'uomo, soltanto più altruistica.

Ora, la vera questione rimane la comprensione della evoluzione delle specie, sulla base delle variazioni casuali dei singoli organismi. A questo proposito, vediamo un passo tratto dal paragrafo sulle circostanze favorevoli alla selezione naturale. Scrive Darwin: "Un gran numero di indivi­dui, offrendo maggiori probabilità alla comparsa, entro un tempo più o meno breve, di variazioni utili, compenserà un minore ambito di variabilità nel singolo individuo e sarà, penso, un elemento di successo estremamente interes­sante". Questa è un'osservazione molto interessante, ma soltanto in termini statistici e non in relazione ai singoli individui (alle probabilità) bensì alle specie (alle frequenze). L'elemento di successo di cui parla Darwin non può riguardare i singoli individui, può invece riguardare le specie come risultato, nel lungo periodo, necessario. Il gran numero d'individui si limita, per così dire, ad offrire statisti­camente alla specie il vantaggio delle proprie singole variazioni, allo stesso modo in cui, ad esempio, i piccoli risparmiatori offrono i propri spiccioli al sistema bancario.

Riguardo ai singoli individui della maggior parte delle specie, soltanto pochi prediletti dalla sorte hanno il vantaggio delle variazioni utili a sé e alla propria progenie, mentre gli altri vengono eliminati o vivacchiano. Riguardo alle specie, il successo è garantito soltanto se, comunque vadano le cose, dato il numero elevato di individui si verifichi qualche variazione casuale individuale che possa permettere la sopravvivenza della specie stessa. A questo proposito, oggi conosciamo un esempio estremo, quello rappresentato dalla sopravvivenza delle popolazioni batteriche nelle condizioni più difficili, come ad esempio in colture antibiotiche.

Poiché, come scrive Darwin: "La selezione naturale tenderà sempre a conservare tutti gli individui che variano, sia pure in grado diverso, nella giusta direzione, quella cioè, che è più idonea a riempire il posto occupato", e poiché, come abbiamo visto, sono rari gli individui favoriti dalla sorte, che cosa dobbiamo concludere? Che la natura, casualmente, benefica una minoranza d'individui, e ne eli­mina la maggior parte. E questa casuale conservazione-elimi­nazione dei singoli organismi è la base sulla quale si attua il processo di conservazione-estinzione, sempre nello stesso rapporto, a livello delle specie.

In altre parole, la rarità delle variazioni utili individuali, che dipende dalla casualità rivolta in tutte le direzioni, si riflette a livello delle specie nelle numerose estinzioni, nel lungo periodo. E questa non è la necessità della selezione benefica. All'opposto: è la neces­sità del dispendio della vita, come tributo da pagare all’evoluzione inconsapevole delle specie. Questa è la cieca necessità della natura! E questa va considerata una legge assoluta.

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Tratto da "Caso e necessità - l'enigma svelato -Volume terzo  Biologia." (1993-2002) Inedito

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