venerdì 1 settembre 2017

Il dispendioso processo di differenziazione cellulare dipende dall'ambiente interno e non da meccanismi programmati*

Ciò che i biologi cellulari conoscono o credono di conoscere delle cellule staminali è il risultato di esperimenti "in vitro" dei quali non esiste alcuna garanzia di conferma "in vivo", ossia all'interno dei tessuti, degli organi e dei sistemi fisiologici dell'organismo animale e umano. Se "in vitro" si riesce in certi casi a far proliferare staminali, quando si tratta di farle differenziare in forme cellulari volute ci si trova di fronte a difficoltà insormontabili. L'illusione di poter ottenere la differenziazione cellulare programmata, voluta, "una volta dato il giusto segnale biochimico" (Milano e Palmerini**) è del resto continuamente smentita dalla pratica sperimentale.

Insomma, fare affidamento sulle solite metafore dell'informazione, dal punto di vista sperimentale, non fornisce alcun risultato pratico. Occorre quindi confidare su qualcosa di più semplice e concreto. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, si può solo ipotizzare che il processo di differenziazione cellulare inizi da cellule staminali tra loro indistinguibili, le quali cominciano a "distinguersi" soltanto quando l'ambiente interno si modifica, dividendosi in endoderma, ectoderma e mesoderma.

Insomma, l'embrione subisce una scissione che ricrea tre distinte colonie di cellule staminali identiche (che in seguito, a loro volta, si scinderanno in altre colonie). L'ontogenesi ancora una volta ricapitola la filogenesi: ossia quell'evoluzione che, a partire dagli organismi unicellulari, diede luogo, prima a semplici colonie di unicellulari, poi a organismi "pluricoloniali" (che poco correttamente continuiamo a chiamare "pluricellulari").

L'organismo animale è infatti nient'altro che un contenitore di tessuti, organi, ecc. che in se stessi sono colonie di cellule specifiche. Perciò avere le idee chiare sulla evoluzione della vita significa avere le idee chiare sulle staminali e viceversa.

Quando si lavora soprattutto su osservazioni sperimentali, occorre saper riflettere. Allora, se cellule staminali vengono sottratte da certi distretti dell'organismo per essere coltivate in vitro, e poi si dimostrano capaci di differenziarsi in cellule specifiche di altri distretti (ad esempio, staminali del cervello possono dare origine a cellule differenziate del muscolo) che cosa dimostra questo risultato empirico? Semplicemente, che l'ambiente interno è fondamentale per la differenziazione cellulare.

Invece, per le autrici "occorrone studi successivi che confermino tali risultati e la non casualità degli eventi osservati". Frase questa, che rivela la solita, infondata, preoccupazione deterministica. Purtroppo per i deterministi meccanicisti, il caso compare eccome, e proprio come circostanza ambientale: infatti è un caso che questa o quella cellula, questo o quel gruppo di cellule, finiscano in uno dei tre foglietti embrionali, pur rimanendo indistinguibili tra loro. Non c'è, infatti, alcuna ragione informatica o programmatica per la quale alcune staminali debbano finire nel mesoderma piuttosto che nell'ectoderma o nell'endoderma. E non c'è alcuna ragione di tipo istruttivo-informatico per la quale staminali che passino in un distretto debbano essere diverse da altre finite in altri distretti. Ciò che si può ipotizzare sensatamente, allo stato attuale delle nostre conoscenze, è che le cellule staminali, nel momento della loro partecipazione al processo di differenziazione in cellule specifiche del distretto in cui si trovano, potranno essere modificate soltanto da fenomeni specifici dell'ambiente stesso.

Ora, per rendersi conto di quanto siano lontani dalla consapevolezza dei fenomeni relativi alla differenziazione delle staminali che cercano così ostinatamente di dominare, è sufficiente questo passo: "Il dibattito sulla presunta equivalenza tra cellule staminali adulte ed embrionali, oltre a essere "moralmente viziato, ha scritto il bioeticista Demetrio Neri, è ancora prematuro. Dalla conoscenza finora raccolta ci sono parecchie lacune. Non si conoscono per esempio i meccanismi (!) biologici che mantengono le cellule con la caratteristica di staminali e neppure se esistono stadi riconoscibili di staminalità, maggiore o minore. E, ancora, se sia possibile prenderle, così come si prende un bambino per mano, verso uno di questi differenti stadi. Tra le diverse sfide del futuro c'è da scoprire quali sono i fattori (!?) che permetterebbero di sfruttarle a scopo terapeutico".

Paradossalmente la metafora del "bambino preso per mano" non conferma l'ipotesi deterministica dei meccanismi e dei fattori. Si è mai visto un "bambino preso per mano", per essere guidato attraverso varie scuole fino alla "maturità, diventare ciò che fin dall'inizio si pretendeva da lui, ad esempio un fisico matematico oppure un senatore della repubblica? Se noi consideriamo i grandi numeri di singoli bambini, solo il caso stabilirà che cosa diverrà questo o quello. Ma se noi cosideriamo le frequenze statistiche delle più diverse professioni, allora potremo vedere come il caso si rovescia nella necessità statistica.

Ora, se noi pensiamo una staminale come un bambino preso per mano, è ovvio che il suo destino sarà segnato dal caso del suo percorso nell'ambiente interno dell'organismo. Se a un bambino si facesse come a una staminale, ossia lo si togliesse da una specializzazione scolastica, in seguito avremmo ottenuto semplicemente da lui d'essere qualcosa di diverso. Lo stesso avviene con una staminale, anche se con una differenza: una staminale (ad esempio della pelle) è come un bambino rimasto però "congelato" alla sua infanzia, ossia rimasto nella profondita del derma senza modificarsi. Ora, se uno sperimentatore la sottrae da quel distretto e la pone in un altro, il "bambino congelato", pardon la staminale, compierà il percorso tipico del nuovo distretto specializzandosi in quella professione, pardon in quella cellula somatica specifica, fino al prodotto finale.

Insomma, occorre considerare la "staminalità" come una condizione eguale per tutte le cellule cosiddette immortali, che sono come le belle addormentate del bosco, ossia tra loro indistinguibili in quanto dormienti; finché è la richiesta del loro distretto che le risveglia e le avvia al processo di differenziazione.

Allora, quando chiamiamo ematopoietiche un gruppo di staminali, e neuronali un altro gruppo, in realtà non indichiamo una specificità che conosciamo, perché questa specificità non esiste; indichiamo semplicemente il luogo in cui casualmente si trovano: il sangue o il cervello. Invece, per i biologi cellulari, dominati dai dogmi della biologia molecolare, il fatto che una staminale residente nel sangue o nel cervello possa differenziarsi in un tipo cellulare appartenente a un altro distretto, quando viene sottratta al suo, questa circostanza contraddirebbe "un dogma accettato dall'intera biologia, mostrando che la programmazione (!) delle cellule staminali dei tessuti adulti non è, per così dire, irreversibile, ma che anch'esse conservano la possibilità di tornare indietro e diventare cellule di qualsiasi altro tessuto".

Ecco il solito errore! Ecco come qui si manifesta la solita judicial blindness dei biologi meccanicisti, "programmatori": immaginando che le staminali di ogni distretto siano andate avanti nella differenziazione, essi ritengono che queste cellule siano sostanzialmente modificate, perché questo impone il loro concetto di programmazione. Dopo di che sorge una questione speciosa, risolta con un'ipotesi ad hoc: "come fanno a tornare "indietro"? Evidentemente perché non sono state programmate irreversibilmente". In altre parole saranno reversibili. Da cui l'assurda idea che, una volta intrapresa, la via della differenziazione non sia affatto irreversibile. Invece di separare due situazioni semplici, e cioè le staminali ancora indifferenziate e indistinguibili da quelle che cominciano a differenziarsi perdendo qualche elemento in maniera irreversibile, si preferisce la soluzione più complicata ossia una differenziazione reversibile.

La realtà parla, però, un altro linguaggio: finché le staminali rimangono dormienti, non vanno "avanti" (ossia non iniziano a differenziarsi); così non devono neppure tornare "indietro"; esse si limitano ad andare casualmente in questo o quel distretto, dove, finché rimangono staminali (dormienti) sono indistinguibili da qualsiasi altra staminale finita casualmente in qualsiasi altro distretto. Insomma, esse non vanno né "avanti" né "indietro", vanno soltanto altrove, senza per questo cambiare natura.

E' solo quando cominciano a differenziarsi (per le richieste specifiche dell'organismo) che esse cambiano perdendo sempre qualcosa che non è più recuperabile; perciò si può parlare di reale irreversibilità. Ad esempio, un eritrocita può tornare "indietro", quando non è più neppure una cellula eucariotica ma un semplice serbatoio di emoglobina? L'errore implicito nell'idea di programmazione-maturazione delle cellule, a partire dalla condizione di staminalità costringe persino qualcuno a ritenere di poter "deprogrammare le riserve di staminali".

Quanto siano confusi, impigliati come sono nelle più banali induzioni empiriche, lo conferma il seguente passo delle autrici [Milano e Palmerini]: "Recentemente, scienziati della Johns Hopkins University, a Baltimora, hanno anche scoperto che il fattore (sic!) più importante nell'indirizzare il differenziamento di alcune cellule staminali del midollo sembra essere lo spazio (!) che hanno a disposizione. Se sono costrette a svilupparsi in un volume ristretto diventano precursori di cellule adipose. Se, invece, nella piastra di coltura hanno a disposizione lo spazio per appiattirsi, è più facile che si trasformino in cellule di osso".**

Come si fa a chiamare fattore il risultato di una osservazione empirica che riguarda fenomeni dipendenti dal loro ambiente? Se veramente volessero riflettere seriamente su osservazioni empiriche come queste, dovrebbero limitarsi a pensare che è l'ambiente circostante a condizionare il comportamento delle cellule staminali e non solo di queste. In se stesse, prese singolarmente, le staminali non si distinguono tra loro, e solo per caso appartengono a questo o quel distretto e sono perciò chiamate, ad esempio, staminali ematopoietiche, staminali neuronali, ecc. Ma poi per necessità (cieca) dell'organismo complessivo sono costrette a differenziarsi nel prodotto finale completamente e irreversibilmente differenziato.

In definitiva, ciò che deve essere compreso e quindi conosciuto è il modo nel quale l'ambiente interno condiziona il processo di differenziazione cellulare. Ma su questo punto non hanno neppure cominciato a pensare. Un punto fermo di partenza dovrebbe essere il seguente: ciò che viene chiamato, erroneamente, specificità tessutale di una staminale altro non rappresenta che il suo indirizzo domiciliare. Perciò, tolta dalla sua sede, prima che abbia iniziato a differenziarsi, essa è come tutte le altre. Era perciò prevedibile, che prima o poi, si scoprisse sperimentalmente la non specificità delle staminali, e la capacità di queste di differenziarsi in cellule di altri distretti.

Un esempio interessante in questo senso è fornito dalla scoperta delle MACPS (Multipotent Adult progenitor Cells), ovvero delle cellule progenitrici adulte multipotenti. Sono cellule molto rare e risiedono nel midollo osseo, assieme alle staminali del sangue. Scrive Vescovi: "Non solo proliferano attivamente, ma sono pluripotenti come le staminali embrionali e possono generare tutti i tessuti, cartilagine, pelle, intestino, cervello ecc. Purtroppo, al momento attuale sono state isolate solo sui topi e bisogna attendere che siano scovate anche nel midollo osseo umano".***

La scoperta è stata fatta da Catherine Verfaille. In seguito, anche con il contributo del gruppo di Vescovi, si è scoperto che le staminali adulte specifiche (!) possono dare vita a cellule differenziate realmente specifiche di altri tessuti (1999). Non rendendosi, però, conto che le cosiddette staminali "tessuto specifiche" sono in realtà soltanto "tessuto-residenti", gli sperimentatori credono di dover fare i conti con l'"interconvertibilità" o il "transdifferenziamento": nuovi neologismi per fenomeni inesistenti.

Scrive, infatti, Vescovi: "Da un decennio sono usciti molti studi sulla interconvertibilità delle staminali di un tessuto di cellule in un altro, sebbene molti cerchino di smentire questa scoperta". "Se esistono cellule come quelle di Catherine Verfaille e fenomeni di transdifferenziamento come quelli che ho appena descritto, allora una parte del nostro corpo potrebbe essere in grado di curarne un'altra e la necessità di embrioni umani non sarebbe più pressante". Avrebbe dovuto aggiungere che anche la necessità di staminali fetali o d'altro genere prese da donatori si sarebbe ridimensionata, eliminando così il problema del rigetto.

Ma queste conseguenze pratiche hanno un valore teorico nullo. Se hanno una certa importanza nel guidare la sperimentazione nei meandri dell'ignoranza e dei pretestuosi dibattiti etici su ciò che ancora non si conosce, non ne hanno alcuna dal punto di vista conoscitivo. Abbiamo visto che la conoscenza delle staminali è ancora così scarsa da produrre l'equivoco della specificità tessutale delle staminali.

Insomma, aver scoperto le MACPS, ossia cellule che, spostate dal distretto in cui stavano, potevano differenziarsi in cellule di altri distretti è una pura e semplice osservazione empirica, è un risultato sperimentale che, senza la giusta teoria, può solo produrre idiotismi teorici e mostruosità pratiche, terreno ideale per i vani e inconcludenti dibattiti etici.


* Paragrafo tratto dal mio saggio: "Chi ha frainteso Darwin?" (2009)

** Gianna Milano e Clara Palmerini, "La rivoluzione delle cellule staminali" (2005)

*** Angelo Vescovi, "La cura viene da dentro" (2005)


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