giovedì 14 ottobre 2010

L'universo e la coscienza

Invece di affermare che la materia nella sua evoluzione ha prodot­to la vita cosciente nel nostro pianeta, Silvio Bergia ("Dal cosmo immutabile all'universo in evoluzione" 2005) afferma: "attraverso il pensiero è come se l'universo fosse arrivato ad acquistare coscien­za di sé". E, dopo aver dato questa interpretazione convenzionale del­la coscienza, egli pretende attribuirle la realtà di una assurda appa­renza: "Questo, a guardar bene, è un fatto ben strano (!). Che della materia "creata" in un evento iniziale, possa, in certe sue parti, co­minciare a riflettere su se stessa e su quanto la circonda, suona, più che bizzarro, assurdo".

Da quando Einstein ha indicato la via dell'utile convenzione per avere successo, i fisici non fanno altro che porre convenzioni al po­sto della realtà, e poi, pretendendo considerarle cose reali, non la smettono mai di stupirsi della loro assurdità: com'è strana questa na­tura! Ma se prendiamo un'altra strada, partendo dalla realtà nuda e cru­da, possiamo affermare che di fronte abbiamo una materia eterna e in­finita in uno spazio e in un tempo infiniti ed eterni, materia che si manifesta mediante universi finiti con un'evoluzione ciclica: perciò nulla si crea e nulla si distrugge.

Infiniti universi possono produrre statisticamente la vita, ma co­me prodotto molto raro e non voluto della evoluzione della materia ne­gli infiniti cosmi. Il nostro universo (l'unico a noi accessibile) prova soltanto che l'evoluzione della materia può produrre la vita e anche la vita cosciente, ma non può fornirci alcuna prova sulla loro frequenza statistica. Noi possiamo solo ipotizzarla per consapevolez­za teorica.

Una cosa però è certa: quanto l'evoluzione della materia sia inco­sciente e cieca, lo dimostra il fatto che, persino qui dove la vita cosciente ha attecchito, essa fatica a diventare realmente consapevo­le e ha bisogno di creare false interpretazioni, di creare false coscienze, che capovolgono la realtà creandone fantastiche immagini convenzionali, quasi temesse l'immagine reale (del resto vietata dalla teologia, come il "caso Galileo" insegna).

Come abbiamo cercato di dimostrare nel primo volume dedicato alla Teoria della conoscenza, la falsa coscienza dell'uomo civile, uscito dallo stato selvaggio, si manifestò nell'antico pensiero greco nella contrapposizione diametrale tra il determinismo democriteo e l'inde­terminismo epicureo. In particolare questa contrapposizione ha pro­dotto l'equivoco della rigidità del determinismo che esclude la li­bertà cui si opporrebbe l'elasticità dell'indeterminismo che permet­te vari gradi di libertà.

Questo equivoco è la conseguenza di una incomprensione di fondo: l'essenza del determinismo è la connessione di causa ed effetto che non esiste nei processi naturali dominati dal caso e dalla conseguen­te cieca necessità. L'uomo non può essere libero in rapporto ai pro­cessi naturali proprio perché questi non sono "deterministici", ossia non presentano la connessione di causa ed effetto. Se fossero invece "deterministici", l'uomo sarebbe libero perché conoscerebbe i mecca­nismi della evoluzione della materia e potrebbe interventire a ragion veduta, con "conoscenza di causa".

Persino nei suoi rapporti sociali l'uomo è più libero quando conosce i rapporti di causa ed effetto dei meccanismi da lui creati. Lo è assai meno, quando questi rapporti so­ciali appaiono ben poco meccanismi risolvendosi in processi di tipo naturale. In parole povere, la libertà, come ha sostenuto Engels, si può fondare solo sulla "conoscenza di causa"; perciò il caso non può essere fondamento di libertà, ma solo di anarchia.

L'inconsapevolezza di questi rapporti può naturalmente produrre de­gli strani incroci, come quello che affratella la libertà all'anar­chia. E' ciò che possiamo osservare anche in fisica. Bergia cita Pa­gels che "collega con un filo diretto l'indeterminismo quantomeccani­co con il caso come fattore determinante dell'evoluzione (sic!), dun­que il caso di Heisenberg con quello di Monod rivisto da Eigen, e l'uno e l'altro con la libertà umana "!

Qui la confusione teorica raggiunge inarrivabili vette: l'indeter­minismo quantistico, il caso biologico e la libertà umana mischiati insieme producono quell'accozzaglia che il sociologo Morin ha tanto esaltato come pensiero debole. C'è una parte sempre più consistente della comunità scientifica e culturale che concepisce il determinismo come desolazione, come desolante mancanza di libertà e di creatività, mentre vede nel caso, nella aleatorietà, in una parola nell'indeter­minismo, la benefica occasione di libertà e di creatività. Ma la real­tà è un'altra: la desolazione nasce dal fatto di rendersi conto che l'azione umana è troppo debitrice nei confronti del caso e della conseguente cieca necessità, come quando, pur aspirando a vivere decorosamente e ad esprimere appieno la libertà di pensare, scegliere, ecc., non si han­no le condizioni materiali per poterlo fare, e questo proprio per la aleatorietà delle fonti di reddito, ecc. Dunque, se questa è libertà, è libertà di sbarcare il lunario: altro che creatività!

Allora, la condizione individuale è desolante e penosa perché è sog­getta all'incertezza del caso, che si manifesta più spesso nella forma di sfortuna che in quella di fortuna. E questo vale soprattutto nel­l'epoca attuale, non soggetta a ferree leggi deterministiche, ossia non soggetta a un rigido determinismo. In definitiva, la falsa coscienza umana, così lontana da poter esse­re reputata coscienza della natura e dell'universo, ha sempre preteso di vedere nella natura o quel determinismo causalistico al quale essa aspira (Democrito) o quell'indeterminismo casualistico al quale essa è da sempre assoggettata pur immaginando di farne la sua bandiera di libertà (Epicuro). Dopo più di due millenni ci trasciniamo ancora que­ste due palle ai piedi. 

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