giovedì 7 ottobre 2010

Il caso Dawkins

L'opera di Dawkins si può riassumere in un "centone" di metafore esoteriche, accompagnate da prolisse, pedanti e minuziose descrizioni empiriche. L'uso ossessivo di metafore, a cominciare dai titoli delle sue opere, quali il "Gene egoista", il "Monte improbabile", ecc., e l'eccessiva minuziosità delle sue descrizioni non riescono a coprire l'assoluta mancanza di pensiero, l'assoluta incapacità di riflettere. Tanto che riesce persino imbarazzante criticare la sua "teoria" per la banalità dei suoi scarsissimi contenuti.

Prendiamo, ad esempio, il "Gene egoista". Già attribuire una qualità appartenente alla coscienza individuale a un'entità che nessun biologo è mai riuscito a definire univocamente è un non senso. Se ogni uomo è letteralmente un "io" cosciente, egoista, nessuna cosa o organismo può essere considerata un "io" e per giunta egoista. Può esserlo soltanto in senso figurato. Quindi un gene può essere definito egoista per convenzione, non in senso letterale, tanto meno in senso reale.

Però la scienza contemporanea, a partire dal Novecento, si è caratterizzata proprio come scienza convenzionale e fittizia, facendo abbondante uso di linguaggi metaforici, mediante i quali ha cercato di sopperire alla propria incapacità di conoscere realmente i processi e i fenomeni naturali, fisici e biologici. Perciò Dawkins appartiene legittimamente alla comunità scientifica, anche se rappresenta una delle espressioni più estreme del vuoto teorico della scienza ufficiale.

Una volta per tutte, egli ha stabilito che "noi e tutti gli altri animali siamo macchine create dai nostri geni", e ha considerato questi geni singolarmente protagonisti della evoluzione naturale. Così ha creduto di applicare al singolo gene l'evoluzione naturale darwiniana. Nella sua povertà di pensiero non poteva certo comprendere che, se Darwin aveva posto inizialmente come oggetto principale della evoluzione per selezione naturale le specie animali, non riuscendo in seguito a risolvere il "terribile pasticcio" del rapporto caso-necessità, solo per un obbligatorio omaggio al determinismo imperante nell'Ottocento ha concesso talvolta che la selezione naturale operasse a beneficio dei singoli individui, cadendo così in errore.

Dawkins, partendo dall'errore "riduzionistico" di Darwin, ha trasferito, pari pari, l'evoluzione per selezione naturale ai singoli geni, giungendo così alla mirabile conclusione "che l'unità di base della selezione naturale si identifica meglio non con la specie, né con la popolazione né con l'individuo, ma con una piccola unità di materiale genetico che è conveniente (sic!) etichettare con il gene". L'indefinibile "gene" diventa in questo modo il protagonista inconsapevole della evoluzione, ma solo per convenienza! Come si vede, è sempre la finzione utile che viene scomodata quando non si è in grado di comprendere la realtà materiale. Ed è proprio su questo aspetto fondamentale che l'estremismo riduzionistico fittizio di Dawkins smaschera l'intera comunità scientifica che ha accreditato la sua teoria.

Nel "Gene egoista" (1976), egli affermò: "In tutto il libro ho sottolineato il fatto che non dobbiamo pensare ai geni come ad agenti consapevoli che agiscono per uno scopo. La selezione cieca però li fa comportare come se (!) quello scopo l'avessero ed è stato conveniente per semplicità (!) riferirsi ai geni usando un linguaggio finalistico". L'ammissione sull'uso del convenzionalismo fittizio è esplicita. Però è paradossale e persino assurdo attribuire alla selezione naturale la responsabilità della comoda finzione. Insomma, ancora una volta la natura deve farsi carico delle scempiaggini degli uomini di scienza privi di cervello teorico.

Dawkins proseguiva sulla stessa falsariga: "Proprio come abbiamo trovato conveniente pensare ai geni come ad agenti attivi che lavorano appositamente per la loro sopravvivenza, forse sarebbe conveniente pensare nello stesso modo ai memi*. In entrambi i casi non dobbiamo essere mistici, perché l'idea della finalità è soltanto una metafora". E non è finita qui: "Abbiamo usato parole come "egoista" e "spietato" sapendo bene che si tratta di linguaggio figurato". Insomma, è come se dicesse: scusatemi, non dovete prendermi alla lettera; non si tratta di fatti reali.

Ma subito dopo ribadiva: "Siamo stati costruiti come macchine di geni, create allo scopo di tramandare i nostri geni"! Come dobbiamo giudicare questo "metodo"? Come metodo scientifico non vale nulla. Ma dal punto di vista ideologico sembra avere lo scopo di distogliere il lettore dalla riflessione e dal pensiero. Affermare un fatto, quale l'evoluzione del singolo gene che utilizza l'organismo come una macchina per la replicazione, e poi dichiarare che è solo una metafora, significa semplicemente assicurare il lettore che non c'è altra soluzione, che la scienza non può fare altro. In questo modo Dawkins ha banalizzato fino al limite estremo l'attività scientifica.

Questa valutazione è confermata dalle conclusioni dell'autore: "L'unità fondamentale, il primo motore, di ogni esistenza, è il replicatore. Un replicatore è qualunque cosa dell'universo di cui vengano  fatte copie. I replicatori incominciano a esistere all'inizio, per caso, per l'incontro casuale di piccole particelle. Una volta che il replicatore esiste, è capace di generare una serie indefinita di copie di se stesso. Tuttavia nessun processo di copiatura è perfetto e la popolazione di replicati comincia a comprendere unità che differiscono l'una dall'altra. Alcune di queste varietà perdono la capacità di riprodursi e la loro specie cessa di esistere quando esse stesse cessano di esistere ... " ecc. ecc.

Se a questo banalissimo risultato aggiungiamo che si tratta soltanto di metafore, che cosa rimane? Assolutamente nulla, vuoto assoluto e demenziale. Perciò potremmo terminare qui le nostre riflessioni, se non fosse che abbiamo ancora una questione da verificare nel vuoto pensiero di Dawkins: si tratta del rapporto caso-necessità. A questo scopo consideriamo un suo libro, uscito nel 1996, dal titolo "Alla conquista del monte improbabile", un'altra metafora per iniziati.

Confrontando la selezione naturale con quella artificiale, egli scrive: "Invece dell'uomo è la natura che "decide" quale prole debba morire e quale sopravvivere e riprodursi. Le virgolette sono essenziali, in quanto la natura non decide consciamente". Dopo aver dichiarato, ancora una volta, una "verità" metaforica, Dawkins continua: "È sorprendente il numero di persone che sono convinte che la selezione naturale implichi un qualche tipo di scelta intenzionale. Queste persone non potrebbero prendere una cantonata più grande. È soltanto il caso che dà a una discendenza maggiori probabilità di morire e a un'altra maggiori probabilità di sopravvivere e riprodursi".

Questa dichiarazione cosi esplicita e risoluta sembrerebbe accomunare Dawkins a Gould, strenuo difensore della selezione casuale, Ma non è cosi. Nel capitolo XI, il cui titolo richiama le fiabe: "Il messaggio della montagna", egli, dapprima, cita i fisici che hanno rifiutato e continuano a rifiutare la teoria di Darwin con la seguente motivazione: non si può attribuire alla vita le variazioni casuali, perché le forme viventi pretendono un progettista, essendo macchine così eccezionali da richiedere un progetto (così infatti pensava Schrodinger). Poi afferma: "Quello che Hoyle e Wickramasinghe non capiscono è che il darwinismo non è la teoria del caso fortuito. È la teoria della mutazione casuale combinata con la selezione naturale cumulativa non casuale. Perché, mi chiedo, anche per gli scienziati piu sofisticati questo semplice concetto è cosi inafferrabile?"

Il "semplice concetto" sarebbe la combinazione di casuale e non casuale. E infatti è così semplice da apparire banale. Peccato che non abbia alcun senso logico. E certamente non lo acquista con simili aggiunte: "Sottolineare che la mutazione può essere casuale è il nostro modo di richiamare l'attenzione sul fatto importantissimo che, per contrasto, la selezione è assolutamente non casuale". Ma quale logica può sostenere una simile incoerenza? La difficile, secolare questione da risolvere è il rapporto caso-necessità. Ma come può essere risolta se il termine necessità scompare e al suo posto rimane la semplice negazione del "casuale": il "non casuale"?

Dawkins non riesce a fare altro che ripetere ossessivamente questa negazione con l'aggiunta di qualche variante, come qui di seguito: "Il solo modo di sottolineare la funzionalità della selezione non casuale è mettere in evidenza che la teoria concede semplicemente che la mutazione può essere casuale". "Ma, come ho già detto, non si può per questo obiettare alla teoria che la mutazione deve assolutamente essere casuale, e a maggior ragione non è possibile accampare su questa base pretesti per ridurre la teoria stessa a una teoria del caso. La mutazione può anche essere fortuita, la selezione mai".

Non avendo la minima idea del rapporto caso-necessità, Dawkins ha relativizzato il caso e assolutizzato il suo contrario, il non casuale, che nella storia del pensiero scientifico ha sempre coinciso con la causalità, ossia con il determinismo. Allora si comprende l'aspro confronto tra Gould e Dawkins: se il primo ha concepito una selezione naturale casuale, il secondo l'ha concepita in senso causale. Potremmo, perciò, affermare che essi hanno scimmiottato, a un livello teorico banalissimo, l'antica opposizione diametrale tra il casualismo epicureo e il causalismo democriteo.

Per concludere, ne "Il monte improbabile", Dawkins non ha fatto altro che ripetere ossessivamente, con mille varianti, la non casualità della selezione naturale, come possiamo appurare anche in quest'ultimo passo: "Pur concedendo che la mutazione sia casuale, e da un certo punto di vista (!) lo è quasi (!) di sicuro, la selezione naturale è assolutamente non aleatoria". Egli ha dovuto ripetere spesso questa generica negazione, non potendola né provare né dimostrare, anche perché con le metafore non si può provare e dimostrare nulla: figurarsi una semplice negazione.

* In analogia con i geni, intesi come le unità di informazione genetica, i "memi" sono per Dawkins le unità fondamentali di trasmissione culturale.

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Tratto da "Chi ha frainteso Darwin?" 2009

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