mercoledì 23 giugno 2010

Prefazione tratta da “Caso e necessità. L’enigma svelato – Volume primo – Teoria della conoscenza” (1993-2002) (Inedito)

"L'arte di operare con dei concetti non è innata e neppure acquisita con la coscienza comune di tutti i giorni, ma richiede invece un pensiero reale e questo pensiero ha una lunga storia sperimentale, né più né meno dell'indagine naturalistica sperimentale. Appunto imparando a far propri i risultati dello sviluppo della filosofia durante venticinque secoli, essa si libererà da un lato da ogni filosofia della natura che stia a parte e al di fuori e al di sopra di essa, ma anche, d'altro lato, dal suo proprio metodo limitato di pensare, ereditato dall'empirismo inglese" (F. Engels, seconda prefazione all'Anti-Dühring).

E' passato più di un secolo da quando Engels espresse questo suo convincimento, offrendo alla comunità scientifica di fine Ottocento lo strumento del pensiero dialettico, come l'unico in grado di operare una sintesi generale dei risultati delle scienze della natura. Ma l'offerta non fu neppure presa in considerazione. A parziale giustificazione di quel rifiuto potremmo addurre il fatto che nemmeno Engels poté, allora, offrire la chiave di volta del pensiero dialettico, perché i tempi della scienza non erano ancora maturi.

Fino a tempi molto recenti, la pretesa dell'assoluta verità ha potuto appoggiarsi soltanto sull'assoluta necessità, garantita dalla connessione causale di tutte le cose; mentre, all'opposto, il relativismo possibilista ha fatto affidamento sul caso. Se la connessione di causa ed effetto ha sempre rappresentato il fondamento della necessità, il caso è sempre apparso come il fondamento del generico possibile, del probabile. Si tratta di due concezioni diametralmente opposte, metafisiche, le quali ammettono o solo la causa che assicura la necessità o solo il caso che concede, con la probabilità, una scappatoia dalla necessità stessa.

Se leviamo il caso e la necessità dalla loro opposizione diametrale, otteniamo la chiave di volta del pensiero dialettico: il concetto polare caso-necessità. La soluzione di questo concetto dialettico non solo permette di affrontare, impostare in modo nuovo e, infine, risolvere le principali, difficili questioni delle scienze della natura, ma permette anche di comprendere perché, nonostante ventisei secoli di sperimentazione del pensiero umano, oggi la teoria della conoscenza sia ridotta così a malpartito da non poter indicare alla scienza altra via se non la sconfortante e umiliante "predizione del probabile".

Anticipando un risultato della nostra indagine, affermiamo che la principale ragione del fallimento di lungo periodo della sperimentazione del pensiero umano consiste nell'aver negato il caso e nell'aver posto in suo luogo la causa, come principio di determinazione della necessità. Si potrebbe dire che, come la sperimentazione empirica da sempre, ma soprattutto col sorgere della scienza moderna, ha tenuto il caso fuori dai suoi esperimenti di laboratorio, così la sperimentazione del pensiero teorico ha tenuto il concetto di caso fuori dai suoi esperimenti concettuali, sacrificando in questo modo uno dei due lati della polarità dialettica caso-necessità, e ritrovandosi irrigidita metafisicamente sul concetto di causa necessaria.

Questa impostazione metafisica determinista, se ha sviato, a partire da Democrito, il pensiero teorico per più di due millenni, ha anche impedito che la recente opposizione al determinismo assoluto si risolvesse nella giusta considerazione del caso in rapporto alla necessità, invece di cadere, com'è avvenuto, in un indeterminismo altrettanto metafisico.

Per comprendere come tutto questo sia potuto accadere, occorre comprendere, in primo luogo, il rapporto contraddittorio esistente tra la natura e l'uomo che ne rappresenta la coscienza. La principale contraddizione riguarda il diverso modo di operare della natura rispetto a quello dell'uomo: se la natura, intesa come il complesso dei processi prodotti dalla lenta evoluzione della materia nel cosmo, opera in maniera incosciente e cieca, l'uomo, che rappresenta il prodotto più maturo di questa evoluzione, è un essere cosciente che produce guidato da scopi, per raggiungere i quali si affida alla connessione di causa ed effetto.

Ora, che cosa poteva fare la coscienza umana, dopo aver raggiunto un certo grado di sviluppo, se non partire da se stessa e da ciò che aveva sotto i propri occhi? L'antico pensiero greco, che per primo fu in grado di portare alle estreme conseguenze questa coscienza diretta e immediata, ha posto l'uomo e la natura sullo stesso piano, quello immediatamente comprensibile: non ancora in possesso di una visione ampia e complessiva del movimento reale della materia, l'uomo ha visto un universo rimpicciolito a tal punto da poter equiparare gli oggetti prodotti dalla natura agli oggetti della produzione umana, così da applicare ai primi quella connessione diretta di causa ed effetto, verificata empiricamente sui secondi.

Ma per poter far questo, il pensiero antico ha dovuto respingere ogni nesso tra il caso e la necessità. Così, se Epicuro soltanto ha concepito il caso (come libertà), lo ha assolutamente separato dalla necessità; se Democrito ha concepito la necessità (come causalità), l'ha separata assolutamente dal caso; e Aristotele, seguendo Democrito, ha concepito la necessità come connessione di causa ed effetto, stabilendo quel principio deterministico dell'antichità che, attraverso il medioevo, si è conservato fino all'epoca moderna. Sembra proprio che il pensiero umano, fin dall'antichità, non sia riuscito a sopportare di concepire il caso e la necessità in conessione tra loro, eclissando così la difficile questione del rapporto caso-necessità.

Dice Engels che una vera scienza della natura è iniziata nel XV secolo, ed è stata caratterizzata dall'analisi delle singole parti e dalla ripartizione dei diversi fenomeni e degli oggetti della natura in classi determinate. "Ma questo metodo ci ha del pari lasciata l'abitudine di concepire le cose e i fenomeni della natura nel loro isolamento, al di fuori del loro vasto nesso d'insieme, di concepirli perciò non nel loro movimento, ma nel loro stato di quiete, non come essenzialmente mutevoli, ma come entità fisse e stabili, non nella loro vita, ma nella loro morte. E poiché questa maniera di vedere le cose, com'è accaduto con Bacone e Locke, è passata dalla scienza della natura nella filosofia, ha prodotto la limitatezza specifica degli ultimi secoli: cioè il modo di pensare metafisico". (F. Engels, “AntiDhuring”, introduzione)

Questo modo di pensare ha ereditato il determinismo dall'antichità, ma non si è limitato a questo: l'abitudine a concepire le cose nel loro isolamento ha portato a concepirle come singoli elementi semplici ai quali dovevano essere ricondotti i fenomeni complessivi, considerati come composti o meccanismi producendo una specifica metafisica: il riduzionismo meccanicistico.

La metafisica riduzionistica, inaugurata dal metodo cartesiano, concependo la necessità a livello delle singole cose (o idee delle cose), ha impedito la comprensione del reale rapporto tra singolo e complesso, perché ha posto, in luogo del caso relativo ai singoli elementi, la causa necessaria. Così la necessità del fenomeno complessivo, inteso come meccanismo, è stata attribuita alla connessione causale diretta tra le singole cose, intese come parti del meccanismo stesso o, che è lo stesso, come componenti del composto meccanico. Il risultato è stato un modo di vedere che può essere definito determinismo riduzionistico-meccanicistico.

In questo modo, il pensiero umano è di nuovo caduto nell'errore di umanizzare la natura, attribuendole qualità che appartengono all'uomo, così da non vedere la specifica dialettica naturale caso-necessità, secondo la quale i singoli elementi che partecipano a un fenomeno complessivo rappresentano il momento della casualità, che si rovescia nel suo opposto, in necessità, solo a livello del complesso.

Come spiegare che con tutti gli ingegni che si sono dedicati alla soluzione della difficile questione della determinazione della necessità nei processi naturali, il risultato sia stato così fallimentare e fuorviante, persino nell'epoca in cui si è andata affermando la scienza moderna? La risposta è complessa, come complessa è la storia del pensiero umano; perciò richiede uno studio approfondito, studio che compare nella trilogia dedicata alla teoria della conoscenza, alla fisica e alla biologia.

In questa prefazione ci limitiamo ai punti essenziali. In sintesi, ogni epoca ha potuto riflettere attorno ai fondamentali temi di teoria della conoscenza soltanto entro i limiti imposti dalle idee dominanti dell'epoca stessa. Nel Seicento, si poté riflettere e dibattere soltanto entro i limiti consentiti dal pensiero teologico dominante. Concetti fondamentali come necessità, caso, realtà, possibilità, verità, falsità ecc. vennero a trovarsi irrigiditi entro dicotomie metafisiche-teologiche, la principale fra tutte: quella di "necessità fatale" e di "libero arbitrio". Ogni studioso, da Cartesio a Leibniz ecc., fu costretto a sottomettere la sua indagine all'obbligo di coerenza con la dimostrazione dell'esistenza di Dio, causa prima e suprema del mondo. C'è forse da stupirsi che la causalità abbia spodestato il caso, dopo averlo annullato con l'aiuto di Dio?

Sebbene i grandi ingegni del Seicento abbiano fatto di tutto per liberare la ricerca scientifica dalle pastoie della teologia, essi non potevano giungere fino al punto di negarne il dogma fondamentale: la causalità divina; anzi, l'accettarono come connessione causale di tutte le cose. Negare la causalità divina sarebbe stato come negare la storia del pensiero antico e medioevale. Questa idea forza risaliva alla sintesi aristotelica e, sebbene attribuita fin dall'inizio agli dei del creato, apparve fin troppo congeniale all'uomo, essendo nient'altro che una sua proprietà proiettata nel cielo, e adatta a interpretare un universo limitato ancora al solo sistema solare e a una manciata di stelle fisse.

Gli studiosi del Seicento non solo accettarono il principio teologico-deterministico di causalità, ma, seguendo la vocazione della teologia nei confronti della singolarità, applicarono riduzionisticamente la connessione causale alle singole cose: così concepirono la necessità causale a livello dei singoli elementi dei cosiddetti composti considerati alla stregua delle macchine prodotte dall'uomo. La natura apparve loro come una grande macchina: sorse così il meccanicismo che trovò il suo fondamento nel sistema copernicano-newtoniano.

Se passiamo a considerare l'Ottocento, che cosa osserviamo? Questo secolo, apparentemente liberato dagli obblighi teologici, non ha fatto altro che imporre un determinismo assoluto, legittimo erede del riduzionismo meccanicistico del Seicento. Il contrassegno del secolo XIX fu un determinismo assolutamente ostinato nel rifiuto del caso, e certo della connessione causale di tutte le cose. Così, chi malauguratamente, nel suo campo d'indagine, s'imbatté nelle manifestazioni della casualità, non poté fare altro che mettersi le mani nei capelli, come capitò a Darwin, il quale dichiarò di trovarsi in un "terribile pasticcio" perché, come scrisse all'amico Asa Gray, "non posso pensare che il mondo, come lo vediamo, sia il risultato del caso: eppure non posso guardare ogni cosa come fosse il risultato della necessità".

Con queste semplici parole, Darwin manifestò la sua perplessità nei confronti del vero nodo da sciogliere: il mondo nel suo complesso non può che essere necessario, ma ogni singola cosa appare soggetta al caso! L'Ottocento non permise di sciogliere questo nodo, perché non accettò mai di porre la questione del rapporto tra il caso e la necessità fra i temi all'ordine del giorno, neppure quando Boltzmann dovette decidersi a considerare il movimento delle singole molecole di un gas come puramente casuale. E persino nel dibattito attorno al calcolo delle probabilità e alla statistica, il cui rapporto reciproco può essere compreso solo come riflesso della dialettica caso-necessità, prevalse sempre l'impostazione deterministica. Si potrebbe dire che non si possono avere occhi per vedere ciò che non rientra nei temi ammessi dall'epoca in cui si vive: in altre parole, non si può andare fuori tema nella comunità scientifica, se non eccezionalmente con anticipazioni che rimangono, spesso per lungo tempo, nel cassetto, com'è capitato alla "Dialettica della natura" di Engels.

Se, infine, passiamo a considerare il secolo appena trascorso, osserviamo una situazione paradossale: dominato dal pluralismo delle teorie scientifiche, esso ha permesso, nel campo della teoria della conoscenza, un gioco così "libero" che, nella confusione generale prodotta dal brancolare in tutte le direzioni, il caso ha potuto beneficiare il ritrovamento dell'unica via giusta, allo stesso modo che in natura solo per un caso raro si afferma la direzione più progressiva, in mezzo a un gran numero di direzioni che finiscono in vicoli ciechi e si estinguono: e ciò rappresenta l'eccezione statistica sulla base di un grande dispendio.

Il disordine che domina l'attuale teoria della conoscenza ha il solo merito, del resto inconsapevole e non voluto, di liberare il campo della conoscenza dalle vecchie costrizioni deterministiche, ma, d'altra parte, ha il grave torto di lasciare l'intera comunità scientifica senza bussola. Oggi domina la forma democratica pluralista che ammette, in ogni campo della vita materiale e spirituale, la libertà di concepire qualsiasi opinione e dottrina, senza alcuno scrupolo né per la verità né per il buon senso. La comunità scientifica è perciò diventata una torre di Babele che ammette ogni sorta di metodi e teorie: si va tranquillamente dal più assoluto riduzionismo deterministico e finalistico della biologia molecolare e della nuova immunologia, alla più anarchica delle teorie: quella del Caos; e l'unica preoccupazione sembra essere quella di stabilire regole di buon inquilinato.

Fra tanta apparente libertà (è dal tempo di Epicuro che si scambia il capriccioso caso con la libertà), un unico vincolo: l'assoluta soggezione alla democrazia pluralista; ciò che significa: l'assoluta rinuncia alla costruzione di teorie generali. Questa è la condizione per poter essere ammessi nella comunità scientifica. Non deve perciò stupire che sia nata una specie di giurisprudenza della scienza, con il compito di stabilire norme di comportamento teorico: si tratta della nuova logica formale, la quale stigmatizza le teorie generali, complesse e articolate con il temibile marchio di "logicamente vuote". Salvo il vincolo a non concepire teorie generali, tutto è stato teoricamente e praticamente ammesso. Il pluralismo scientifico è stato e continua ad essere molto permissivo per quanto riguarda ogni sorta di idee e di sciocchezze più o meno sublimi, per indicare le quali ha coniato la deliziosa espressione di "libere creazioni della mente".

Poiché, però, l'incertezza regna sovrana per mancanza di una bussola che orienti il pensiero, alla fine tutti finiscono col rifugiarsi nel vecchio e rassicurante dogmatismo metafisico. Così, chi crea una nuova logica formale, chi elabora un nuovo "paradigma" o ne riadatta uno vecchio, finisce sempre con l'attaccarsi alla sua costruzione come a un dogma. Non c'è oggi nulla di più dogmatico, ad esempio, delle teorie relativistiche e quantistiche, nonostante l'assicurazione che esse sono solo "utili convenzioni" prodotte dalle "nostre libere creazioni della mente".

Il 2000 si apre con questa ennesima contraddizione: il pluralismo relativistico che disdegna le teorie generali come dogmatiche, che, per questa ragione, si mostra ostile alla concezione teologica, con la quale continua però a condividere il primato della singolarità, è a sua volta dogmatico nelle principali sfere della scienza attuale. Insomma, per ogni difficile questione della scienza, proliferano i "paradigmi" in omaggio al pluralismo, che immediatamente contraddicono comportandosi come dogmi. Così che, alla fine, il pluralismo deve ripristinare la sua autorità dichiarando che non esiste un'unica verità, ecc. ecc.

Il pensiero dialettico è di tutt'altro avviso e di tutt'altro temperamento; ritenendo che di ogni difficile questione della scienza si possa, prima o poi, trovare la vera e unica soluzione, non concepisce alcuna libera creazione della mente, bastandogli la libertà da qualsiasi obbligo che non sia la necessità della riflessione del reale movimento della natura, della società e della storia umana. Il pensiero dialettico non teme di mettere alla prova le sue elaborazioni teoriche con le nuove scoperte empiriche della scienza. Il suo è il motto di chi è ardito: "Ho osato! e non: devo? posso? chi mi aiuta? ce la farò?" (Goethe, “Massime”). Non si preoccupa del fatto che le forme materiali si mostrino oggi diversamente da come apparivano agli occhi dei grandi maestri della dialettica: Hegel, Marx ed Engels; non trova in ciò motivo di scandalo e di crisi, anzi ritiene che le nuove scoperte empiriche della scienza contemporanea possono essere comprese soltanto dallo sviluppo delle polarità dialettiche.

La necessità di questo sviluppo teorico ha posto, ormai, all'ordine del giorno la soluzione dialettica del rapporto caso-necessità. Gli studiosi che hanno compreso, entro certi limiti storici che chiariremo, il rapporto esistente tra il caso e la necessità, sono stati Hegel, Marx ed Engels, tutti e tre avvalendosi del pensiero dialettico. Engels, in particolare, ha affrontato il rapporto caso-necessità, come riflesso del carattere dialettico dei processi naturali, e lo ha considerato come il principale concetto polare per la biologia e per la teoria di Darwin. Per questo motivo è dalla sua elaborazione, contenuta in un paragrafo della "Dialettica della natura", che il nostro studio prende le mosse.

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