mercoledì 16 novembre 2016

"Il significato dell'esistenza umana"

Questo titolo ambizioso è tratto dal libro di Edward Osborne Wilson, uscito nel 2014 e pubblicato su "Le Scienze" di Gennaio 2015. Nelle intenzioni dell'autore questo "significato" va inteso in senso scientifico, come visione del mondo che non dipende dalle intenzioni di un architetto: "nessun disegno tracciato in anticipio, bensì reti sovrapposte di cause ed effetti fisici. La storia del suo dispiegarsi obbedisce soltanto alle leggi generali dell'Universo; ogni evento è casuale, e nondimeno altera la probabilità di eventi successivi".

Ma se ogni evento è casuale che cosa ha a che vedere con le cause e gli effetti? E come può Wilson scrivere: "L'umanità, sostengo, emerse in modo del tutto indipendente attraverso una serie cumulativa di eventi avvenuti nel corso dell'evoluzione. Noi non siamo predestinati a raggiungere alcun obiettivo, né dobbiamo rendere conto a un qualsiasi potere che non sia il nostro. A salvarci sarà solo la saggezza basata sulla comprensione di noi stessi, e non la devozione religiosa"?

Il problema della specie umana è che non è mai vissuta accomunata in un'unica identità in grado di sviluppare una saggezza complessiva, bensì è sempre vissuta divisa in una molteplicità di Stati, sotto diversi poteri economici, politici e sociali. Ma a partire dalle sue origini la nostra specie ha rapresentato l'eccezione delle eccezioni di un grande dispendio, è stato il "cigno nero", il caso eccezionale uscito fuori necessariamente sulla base di miliardi di specie viventi, sorte evolutivamente su questo pianeta nel tempo di centinaia di milioni di anni, relativamente ai primi mammiferi, e di miliardi di anni, relativamente ai primi organismi pluricellulari. E questa è l'unica osservazione certa, senza dover scomodare il deterministico rapporto di causa-effetto, che solo l'uomo ha potuto fare suo, attribuendolo, però, erroneamente ora a un Dio ora alla Natura.

Procedendo con un breve esame critico di questo libro potremo chiarirci alcune idee. Ad esempio, nel capitolo 2 già il titolo, "Risolvere l'enigma della specie umana", crea un problema. Di quale enigma si tratta? Se l'autore avesse riflettuto meglio, avrebbe compreso che la specie umana è la specie eccezionale sorta necessariamente dai grandi numeri, è l'unica specie vivente che ha potuto giungere necessariamente a forme di coscienza di se stessa e delle proprie possibilità attraverso, però, numerosi compromessi tra la sua rara intelligenza e la sua frequente stupidità. L'enigma, allora, è il seguente: fino a che punto l'umanità può diventare cosciente di sè e dei propri mezzi, smettendo di creare false teorie deterministiche o indeterministiche?

Wilson sostiene che "La condizione umana è un prodotto della storia: non dei soli sei millenni di civiltà, ma di un periodo che ne copre centinaia, spingendosi molto più indietro"; sostiene inoltre che molte persone preferiscono la versione "di un disegno soprannaturale al cui autore bisogna inchinarsi". Ma affermare questo non significa già inchinarsi alle religioni? Soprattutto se si aggiunge: "E' giunto il momento di considerare quello che la scienza potrebbe offrire agli studi umanistici (e questi ultimi, a loro volta alle scienze) nella ricerca comune di una risposta più solida al grande enigma della nostra esistenza"?

Ingenuamente Wilson non si avvede che già parlare di grande enigma della nostra esistenza significa porre il problema in termini umanistico religiosi, non già in termini umanistico scientifici. E non sarà l'invenzione di un nuovo vocabolo come "eusocialità", "per indicare una condizione sociale autentica", a cambiare le cose. Semmai, le rende più artificiose.

Può essere interessante, invece, il confronto con Monod, autore divenuto famoso per averle sparate grosse sul caso e sulla necessità. Wilson si chiede "Che cosa ci insegna la storia della nostra specie? Mi riferisco qui a ciò che è stato svelato dalla scienza, non alla versione arcaica imbevuta di religione e ideologia. Io credo (sic! Per un non credente è buona come battuta!) che le prove disponibili siano abbastanza  corpose e sufficientemente chiare per dirci quanto segue: non siamo stati creati da un'intelligenza soprannaturale ma dal caso e dalla necessità". Insomma, lui non crede in Dio, ma crede in Monod, ovvero crede in una generica teoria che ammette il caso da una parte e il meccanismo assoluto dall'altra senza alcuna connessione tra loro.

E così, grazie a Monod, Wilson può semplificare le cose, può evitare di parlare dell'importanza dello studio e della riflessione per la conoscenza della realtà e per la coscienza complessiva che il singolo cervello può elaborare con l'ausilio delle opere di altri cervelli umani singoli e complessivi. Grazie a Monod egli arriva a concludere: "L'umanità ebbe origine come un accidente dell'evoluzione, come un prodotto di mutazioni casuali e selezione naturale. La nostra specie fu soltanto un punto d'arrivo, raggiunto dopo molteplici svolte e tortuosità, da una singola linea evolutiva di primati del Vecchio mondo (proscimmie, scimmie, grandi antropomorfe, esseri umani)" ecc.

Non dice, però, che la nostra specie è, soprattutto, un prodotto statisticamente molto raro ed eccezionale, un cigno nero dell'evoluzione. Non è consapevole del fatto che, se siamo stati gli unici ad evolvere un'intelligenza sufficiente a creare una civiltà con tanto di alta tecnologia, ciò significa sostenere implicitamente che l'unicità della specie umana obbedisce soltanto alla legge dei grandi numeri, che l'ha favorita per un caso eccezionale, permettendole di raggiungere, grazie a una lunga serie di altri eventi rari ed eccezionali, la posizione dominante tra le specie viventi.

Ma ecco che, come una folgore, inaspettatamente, Wilson colpisce nel segno: "I nostri leader in campo religioso, politico e industriale per lo più accettano le spiegazioni soprannaturali dell'esistenza umana. Anche se in privato sono scettici, non hanno alcun interesse a opporsi alle autorità religiose e ad agitare inutilmente il volgo, dal quale attingono potere e privilegi". Ecco riassunta, anche se in maniera ingenua, la reale essenza della democrazia nell'era globale!

E non è finita, ce n'è anche per gli scienziati: "Particolarmente deludenti sono gli scienziati, che potrebbero contribuire a una prospettiva più realistica; in larga misura fedeli subordinati, sono nani intellettuali soddisfatti di restarsene nei ristretti ambiti di specializzazione per i quali sono addestrati e ricevono uno stipendio". L'autore di questo blog non avrebbe potuto dirlo meglio! Spesso capita all'ingenuità del pensiero anglosassone di farsi sfuggire verità che, dette altrimenti, potrebbero apparire feroci attacchi alla scienza dell'era della globalizzazione.

Chiudiamo citando queste ultime osservazione di Wilson: "La fede è la prova della sottomissione di una persona a una particolare divinità; e, comunque, non direttamente alla divinità ma ad altri esseri umani che affermano di rappresentarla". Ben detto! Ma occorreva aggiungere che, oltre al pregiudizio religioso, vi sono altri pregiudizi arcaici che hanno indebolito la cultura umana, benché su basi razionali più logiche e onorevoli, come il seguente citato da Wilson, con il quale chiudiamo il discorso: "Il più importante è la convinzione che i due campi del sapere -la scienza e le discipline umanistiche -siano intellettualmente indipendenti; non solo: che più distinte le si tiene, e meglio è".

Questo è l'errore imperdonabile, questo è il colossale errore della specie umana calcolabile in decine di secoli fino ad oggi! Errore che soltanto un autodidatta, alla fine del secondo millennio dell'era cristiana, ha cominciato a correggere, iniziando l'opera di unificazione di tutti i campi del sapere sul fondamento della dialettica caso-necessità. Ma l'autodidatta è vecchio e ha solo dato inizio al lavoro. Chi raccoglierà il testimone per portarlo alla meta?

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