sabato 9 dicembre 2017

3) L'incompresa necessità statistica del saggio medio del profitto

Lo scopo di questi capitoli dedicati al Capitale di Marx non è certo quello di compiere un'analisi approfondita del testo, che rappresenta una miniera inesauribile di analisi economico politica, sociale e storica. Lo scopo è molto più circoscritto: si tratta di verificare l'applicazione della dialettica caso-necessità ad alcuni temi fondamentali trattati da Marx. Per la realizzazione di questo obiettivo occorre, però, pagare uno scotto a una oggettiva difficoltà: ogni passo del Capitale rappresenta soltanto un momento di una concatenazione di nessi quasi senza fine. Dovendo, comunque, fare delle citazioni, s'impone la necessità di sacrificare la parte più analitica per privilegiare i passi più sintetici, nei quali sono riassunti e sintetizzati i risultati più interessanti per il nostro scopo.

In questo e nei prossimi paragrafi tratteremo a fondo il saggio medio del profitto, soluzione statistica del saggio generale del profitto, elaborato da Marx nel terzo libro del Capitale, e riveduto e corretto da Engels. Per il nostro scopo dobbiamo necessariamente partire dal saggio del plusvalore e dal valore delle merci prodotte. Come abbiamo già osservato, e avremo ancora modo di osservare, Marx era solito iniziare la sua analisi secondo il metodo dominante nell'Ottocento, ossia in senso riduzionistico. Ad esempio, egli scrive: "Il valore di ogni merce M prodotta capitalisticamente si esprime con la formula M=c+v+pv [dove M indica il valore della merce, c il capitale costante, v il capitale variabile e pv il plusvalore]. Se da questo valore del prodotto si sottrae il plusvalore pv, rimane un puro equivalente ovvero un valore di merce sostitutiva del valore capitale c+v, speso negli elementi della produzione".

Se il punto di partenza è riduzionistico, il punto d'arrivo è, però, statistico: il valore di "una merce" è in realtà il valore della merce complessiva, di cui la singola merce, prodotta dal singolo capitalista, rappresenta soltanto un'aliquota.

Ora, se consideriamo che il prezzo di costo di una merce è k=c+v, la formula precedente "si converte in quest'altra: M=k+pv, ovverossia valore della merce = prezzo di costo + plusvalore". Poiché il profitto non è che il plusvalore realizzato, il valore della merce sarà uguale al prezzo di costo più il profitto: M = k+p; dunque, il prezzo di costo della merce è minore del suo valore. Allora la formula M = k+ pv si riduce a M = k (valore della merce = prezzo di costo della merce) solo nel caso in cui pv=0, caso che in regime di produzione capitalistica non si verifica mai, sebbene in determinate situazioni di mercato il prezzo di vendita delle merci possa scendere fino al livello e perfino sotto il livello del loro prezzo di costo.

E' evidente che nella produzione capitalistica il plusvalore non sarà mai uguale a zero; meno  evidente che il profitto possa essere zero o anche minore di zero. Ciò naturalmente non può valere nel complesso, ma soltanto in particolari situazioni e per particolari, singoli capitalisti o gruppi di capitalisti. Ma il pensiero determinista (riduzionistico) non poteva essere soddisfatto da queste asserzioni perché non riusciva a comprendere che la legge del valore valesse necessariamente per l'intero complesso della produzione e della circolazione delle merci, ma non per le sue singole parti, sottoposte, invece, a variazioni casuali.

Quando Marx scrive: "Evidentemente, fra il valore della merce e il suo prezzo di costo è possibile una serie indeterminata di prezzi di vendita; quanto più grande è la parte del valore della merce consistente in plusvalore, tanto più esteso è il campo d'azione per la gamma di questi prezzi intermedi", dice, in sostanza, che non possiamo determinare i prezzi di singoli pacchetti di merci nei singoli mercati: qui vige il caso; quindi, è possibile tutta una gamma di prezzi compresi tra il valore e il prezzo di costo delle merci, e persino al di sotto del prezzo di costo.

"Su questa base -aggiunge Marx- non si spiegano soltanto fenomeni che quotidianamente si presentano nel campo della concorrenza, come ad esempio certi casi di vendita sotto valore... ribassi anormali dei prezzi delle merci in determinati rami industriali, ecc." Su questa base si spiega anche la possibilità di vendere con profitto a un prezzo inferiore al valore delle merci: "La stessa legge fondamentale della concorrenza capitalistica finora incompresa della economia politica, legge che regola il saggio generale del profitto e i cosiddetti prezzi di produzione determinati mercé quel  saggio stesso, si fonda, come più oltre vedremo, sulla enunciata differenza fra valore e prezzo di costo delle merci e sulla conseguente posssibilità di vendere con profitto le merci a un prezzo inferiore al loro valore".

Si tratta di una legge statistica che vale in media e perciò non impedisca a Tizio o a Caio di vendere la propria merce al prezzo che gli pare, così come la legge di gravità non impedisce a Tizio o a Caio di gettarsi dalla finestra. Il punto principale è che questa legge non è una legge di causa ed effetto, non è, insomma, una legge deterministica riduzionistica: è una legge statistica che s'impone, nel suo complesso, come media in maniera ciecamente necessaria.

Ciò che si può affermare nel caso singolo è che  "il limite minimo del prezzo di vendita della merce è dato dal suo prezzo di costo. Se la merce viene venduta a meno del suo prezzo di costo, gli elementi consumati del capitale produttivo non possono essere riprodotti integralmente attraverso il prezzo di vendita. Se tale processo dura, il valore-capitale anticipato svanisce. E' già questa una constatazione che spinge il capitalista a considerare il prezzo di costo come il vero valore intrinseco della merce, in quanto esso è il prezzo necessario per la pura e semplice conservazione del suo capitale".

Marx sa molto bene che, in certe circostanze, singoli capitalisti, ma anche singoli settori della produzione capitalitica, possono essere costretti a (o trovare vantaggioso per guadagnare nuovi mercati) vendere, persino, sotto costo; una cosa è, infatti, la necessità della produzione capitalistica complessiva, altra cosa sono gli imprevisti, le circostanze avverse, i più diversi casi che possono costringere singoli capitalisti o singole frazioni  della classe dei capitalisti a vendere anche al di sotto del prezzo di costo delle merci.

Se è vero che per ogni singolo capitalista ciò che conta è il prezzo di costo, che considera il "vero valore intrinseco" della merce, è anche vero che il prezzo di costo delle merci da lui prodotte, così come la speranza di realizzarlo nella vendita, con l'aggiunta del saggio medio del profitto, non sono qualcosa di assolutamente necessario per lui, perché dipendono da troppe circostanze casuali e, perciò, imprevedibili. Così si possono verificare casi in cui per il singolo capitalista è assolutamente necessario svendere le propri merci per recuparare, almeno, il valore-capitale impiegato. Perciò, per comprendere la legge generale del saggio medio del profitto, occorre abbandonare il singolo capitalista ai capricci del caso e considerare il capitalista complessivo, personificazione del capitale complessivo.


Tratto da "La dialettica caso-necessità nella storia" (2003-2005)

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