mercoledì 5 giugno 2013

Si può prevedere il futuro? (Seconda parte)

(Continuazione) Riprendiamo il discorso partendo dall'articolo introduttivo scritto da Fabio Cecconi, Massimo Cencini e Francesco Sylos Labini. Il punto di partenza del dossier, sulla previsione del futuro, è rappresentato dalle seguenti domande: "In che modo sono declinati i metodi e i concetti usati per capire come si svilupperà un certo fenomeno in diversi contesti scientifici, quali meteorologia, fisica, geologia ed epidemologia? In che modo le conoscenze scientifiche si traducono in previsioni utili alle politiche di intervento? Quali sono i limiti di queste previsioni?" E' proprio per rispondere a queste domande che è stato organizzato un convegno, dal quale sono stati tratti i vari contributi per il dossier pubblicato su "Le Scienze".

Fin dall'inizio ciò che non appare chiara è la consapevolezza che le previsioni per essere "utili alle politiche di intervento" devono riguardare singoli eventi, che sono, invece, sotto la giurisdizione del caso. Al posto di questa premessa certa, che non viene mai affermata una volta per tutte, compare ogni tanto la considerazione dell'aleatorietà o stocasticità che rende imprevedibile il futuro, ma compare, soprattutto, il continuo appello all'incertezza, alla caoticità, ecc. della previsione.

E quando, finalmente, si affronta la questione vera, quella del determinismo che si scontra con la probabilità, ci si appella a situazioni di impossibilità che sarebbero specifiche dei fenomeni considerati. Ad esempio, riguardo ai terremoti, essi dipenderebbero "da condizioni di stress che si verificano fino a chilometri sotto la crosta terrestre, inaccessibili a misurazioni sistemiche". Ma, sui terremoti la conoscenza e anche il monitoraggio sono vasti. Ciò che, invece, risulta impossibile è rendere ragione di quella manciata di secondi o minuti di stress che mettono sottosopra una regione abitata, prendendola di sorpresa creando morti, feriti e panico.

Ed è per queste situazioni che, invece di chiarire il rapporto esistente tra il singolo casuale e il complesso necessario, si continua a pretendere di rispondere a domande come la seguente: "Una domanda più complessa riguarda la capacità di prevedere fenomeni regolati non da leggi deterministiche, ma piuttosto da leggi probabilistiche. In questo caso un ruolo importante è svolto dalle tecniche di previsioni statistica, correntemente usate per prevedere, per esempio, il diffondersi di malattie epidemiche, la formazione di opinioni nella società o il suo sviluppo economico".

Ma la statistica, ribadiamo, è una forma di conoscenza applicata ai complessi, alle collettività; tutto l'opposto, ad esempio, della previsione della singola scossa tellurica, che non è soggetta alla statistica complessiva ma alla probabilità singola. E quanto si sia ancora lontani dall'avere compreso la differenza tra probabilità, frequenza statistica e determinazione di causa-effetto lo conferma la seguente osservazione degli autori di questa introduzione (che ribadisce anche il solito errore): "L'analisi di serie storiche e l'inferenza statistica basata sul calcolo delle probabilità sono i due strumenti principali di questo tipo di tecniche predittive, che però da sole non bastano. Gli studi statistici sono molto efficaci nello stabilire correlazioni tra eventi ma, nella maggior parte dei casi non permettono la determinazione di relazioni causali, conoscenza indispensabile per la politica di intervento".

Relazioni causali?! C'è da mettersi le mani nei capelli! In questo genere di spiegazioni non si rende ragione della reale difficoltà della previsione. Innanzi tutto, perché non si chiarisce subito che la previsione riguarda eventi singoli che appartengono alla sfera del caso e dunque al calcolo delle probabilità, il quale stabilisce soltanto possibilità e nessuna certezza? E ancora, perché ci si dimentica di assicurare che il calcolo statistico parte sì dalle probabilità ma giunge sempre a dati di frequenze che riguardano complessi, collettività di eventi? Infine, perché si compie l'errore madornale di cercare relazioni tra inesistenti cause e il quadro statistico rilevato? Dove c'è una statistica non ci può essere una causa: tra il rapporto probabilità-statistica e il rapporto causa-effetto c'è una differenza abissale!

La conseguenza paradossale è che gli autori, dopo aver confermato come proprio un simile errore di teoria della conoscenza, giungano alla seguente falsa conclusione: "Dalla nostra discussione emerge che anche un insieme ben consolidato di conoscenze scientifiche inevitabilmente non si traduce in previsioni prive di incertezza, nella migliore delle ipotesi per i limiti di natura intrinseca ai fenomeni di interesse. Questi limiti non sono sempre compresi o correttamente trasmessi a chi deve tramutare le previsioni in decisioni o protocolli di sicurezza per le popolazioni".

C'è forse bisogno di insistere su questo paradosso che conferma la più colossale delle incomprensioni? La più precisa e perfetta delle conoscenze dei processi naturali è la conoscenza della necessità dei complessi di eventi, mentre i singoli eventi sono inconoscibili e imprevedibili perché soggetti al caso. Se questa verità certa viene taciuta ai pratici, che dovrebbero stabilire protocolli di sicurezza applicabili a collettività di cittadini (per non creare panico e non disturbare inutilmente le loro abitudini), come si può pretendere che non sorgano incomprensioni?

Il fatto è che si preferisce la solita bagarre, il solito rinfaccio reciproco piuttosto che affermare una verità che toglie fondamento a un principio tanto caro non solo alla scienza più tradizionale ma anche ai poteri d'ogni tempo, etici, religiosi e politici: il determinismo, quel determinismo che se l'attività pratica dell'uomo, la produzione tecnologica, conferma pienamente, quando viene applicato ai processi naturali delude ogni aspettativa umana!*

* A questo proposito, vedere i post sulla critica alla riproposizione del determinismo da parte di Paola Dessì.

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