venerdì 17 agosto 2018

Sull'azione umana e la sua valutazione

Su mille cose che pensiamo e facciamo, ma soprattutto che scegliamo di pensare e di fare, solo poche sono rilevanti; le restanti o sono semplicemente effimere e di poca importanza o sono spazzatura. Se ciò vale per i singoli individui in maniera pressoché assoluta, riguardo alla società, alle varie organizzazioni, ai partiti, partitini, conventicole, ecc. vale in una misura relativa ma non certo trascurabile. Ad esempio, quante singole azioni politiche hanno un valore duraturo? Quante sono semplici ripetizioni al solo scopo di mantenere un'organizzazione, persino quando questa produce risultati nulli o ininfluenti come sarebbero se non esistesse?

Questo attivismo senza conseguenze riguarda molte sfere dell'azione umana singola e complessiva, ovvero, dell'azione di singoli e di organizzazioni. Nessuno sembra, però, rendersi conto della difficoltà dell'azione foriera di risultati favorevoli, voluti, ossia necessari, e della facilità dell'azione che produce risultati non voluti, ossia casuali. Anzi, nessuno sembra sapere che il risultato necessario (positivo o negativo rispetto ai fini voluti) è spesso conseguenza non voluta del rovesciamento di grandi numeri di eventi casuali e che, quindi, il risultato necessario che s'impone alla fine, il più delle volte, è un "risultato non voluto", ossia una cieca necessità sulla base di grandi numeri di singoli eventi casuali.

A essere consapevoli di questo andazzo sembrano essere soltanto gli scienziati sperimentali, come, ad esempio, i biologi molecolari, che tentano di trovare proteine utili per curare determinate malattie, e lo fanno producendone grandi numeri a caso, puntando sulle eccezioni statistiche che salteranno fuori prima o poi e potranno essere testate in corpore vili; oppure, come i ricercatori di materiali sempre più duttili e resistenti, i quali, solo dopo molti tentativi casuali, scoprono qualcosa di nuovo, eccezionale ed efficace.

In altre sfere dell'attività umana, in particolare in quella politica, invece, ci si illude di poter operare secondo la necessità deterministica, anche quando si è continuamente sballottati dal caso, anche quando nessun risultato necessario salta fuori dalla continua ripetizione delle medesime azioni, nella calma piatta di una società che va per la sua strada sostanzialmente indifferente alle singole manovre dei partiti. Così, nei momenti di sconvolgimento naturale o sociale, nessuno si trova preparato, per l'abitudine pluridecennale acquisita nella ripetizione di azioni prive di risultati necessari.

Del resto, come si fa ad avvertire gli attivisti di turno che la maggior parte del loro lavoro di routine li ha abituati a ripetere le stesse azioni nella medesime condizioni, così che, cambiate queste, si troveranno impreparati? Peggio ancora sarebbe dire loro che, soltanto mediante la maggior parte delle loro azioni inutili, potrebbe uscir fuori un risultato eccezionale, forse utile, ma persino dannoso.

Bisognerebbe spiegare loro come funziona il rapporto caso-necessità. Però, non solo nessuno conosce questa dinamica, ma tutti preferiscono credere alla necessità volontaristica-deterministica. Perciò, preferiscono credere che le loro manovre tattiche siano avvedute perché fondate sul binomio scopo-necessità, garantito dalla deterministica connessione di causa ed effetto. Ma su questa base, quante delusioni!

Da qui nasce l'imbroglio inconsapevole: ritenere non solo di aver analizzato la realtà esistente, ma di aver compreso esattamente ciò che ci voleva per quella realtà, quando si dovrebbe sapere, ad esempio, che in politica  di sicuro e di certo non c'è mai nulla, perché la materia della politica non è assoggettabile a una precisa teoria scientifica. La politica si manifesta come pratica politica, e questa, al pari della pratica monetaria e della pratica militare, non essendo indipendente, non può fondarsi su una propria, precisa, teoria scientifica.

Questa è la vera difficoltà: che, essendo condizionata dall'economia e dalle conseguenze sociali prodotte da modificazioni economiche, la politica è soggetta alla cieca necessità fondata sul caso, che si manifesta mediante dispendio ed eccezioni statistiche. Allora, si reagisce affidandosi alla disciplina organizzativa per creare un "ordine" e una "necessità" artefatti, pur che siano, pur di non rimanere senza iniziativa. Ma non si tratta di ordine e di necessità reali e volute (che l'impossibile teoria scientifica non può produrre). Ne derivano, come conseguenza, comportamenti compulsivi e ossessivi, continue preoccupazioni, diffidenze reciproche e paranoie, quando ne dovrebbe derivare, invece, un assunto molto più tranquillizzante: quante azioni ottimali, ma anche quanti errori, sono senza conseguenze! 

Perché preoccuparsi tanto, quando la maggioranza delle singole azioni si sistemano da sole nel tran tran quotidiano, essendo sufficiente un pò di tatto, un pò di sensibilità psicologica e un colpo d'occhio allenato? Invece, quando le cose vanno male o non si sistemano affatto, poiché nessuno possiede la conoscenza scientifica degli eventi imprevedibili, tra i quali le eccezionali fortune, salta fuori la risposta etica: il rimprovero morale là dove dovrebbe, invece, intervenire una rassicurazione contro il disagio di non aver ottenuto ciò che si voleva ottenere, e per il quale, magari, si era anche duramente lavorato.

Questo è il "risultato non voluto", teorizzato da Engels, che è sempre in agguato perché non segue alcuna regola, dipendendo dalla cieca necessità complessiva e dal puro e semplice caso singolare che si manifesta ai singoli come fortuna o sfortuna. E sul presupposto del risultato non voluto, il rimprovero morale acuisce proprio ciò che si vorrebbe contrastare: la delusione, la sfiducia, la rassegnazione per l'apparente sconfitta, infine, la defezione per scoraggiamento.


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