Nella seconda lettera al tiranno Dionisio emerge una peculiarità del carattere politico di Platone. Egli inizia chiarendo subito i loro reciproci rapporti: partendo dal presupposto che sono entrambi ben conosciuti da tutti, cita esempi illustri di amici tra i quali Pericle e Anassagora, Creso e Solone per affermare che entrambi devono occuparsi anche del futuro: "gli uomini migliori fanno di tutto per acquistarsi buona fama per l'avvenire". Quindi pone una condizione come premessa: se Dionisio non apprezza la filosofia di Platone, ognuno per la sua strada; se, invece, la considera soddisfacente, più delle altre teorie filosofiche, deve anche onorarne l'autore. E solo dopo, come conseguenza, Platone onorerà Dionisio.
Per Platone era una conseguenza necessaria, che così argomentava: per avere entrambi un buon nome occorre che sia Dionisio per primo a onorare Platone, così si farà la fama di filosofo, mentre se fosse Platone a onorare per primo Dionisio (ovvero lo cercasse per essere onorato) ciò gli procurerebbe un cattivo nome: "si dirà che io ammiro e ricerco la ricchezza; ed è una voce, questa, che, tu lo sai, procura ovunque cattivo nome. Insomma se tu onori me, ne avremo gloria entrambi, se io onoro te, ne avremo entrambi vergogna".
Fine e sottile astuzia il filosofo esprime per mettere le mani avanti e non incorrere nel pericolo d'essere abbandonato e svergognato alla prima contoversia. Oggi si direbbe che egli pretendeva in anticipo una rassicurazione forte. Del resto, già Platone, come in seguito Seneca, dovettero risolvere il problema del rapporto tra filosofo e tiranno in maniera formalmente ipocrita. E ciò si evince dalla lettera tredicesima dove l'autore si mostra più occupato a trattare con Dionisio di affari di compravendita e di personali spese di rappresentanza, che non di filosofia (lettera che, non a caso, non si vorrebbe fosse stata scritta da lui, e perciò si "dubita" dell'attribuzione).
C'è anche da aggiungere che Platone parteciperà in prima persona all'intrigo tra Dionisio e Dione, e in seguito intrigherà anche con i parenti di Dione, ma con un atteggiamento che vorrebbe apparire quello di mediatore che teme di rimetterci le penne.
Socrate era di tutt'altra tempra! Ma il suo discepolo, Platone, aveva "imparato" dalla sorte del maestro; perciò divenne un abile diplomatico. Nella lettera terza, ricordando a Dionisio la vicenda della cacciata di Dione, scrive: "In seguito un uomo forse, o un dio, o un caso, insieme con te cacciò Dione, e tu rimanesti solo". Citiamo anche la lettera settima per un altro cenno sul caso: "Fu un caso che vi venni, ma forse fu un dio che volle dare inizio a quello che è successo a Dione e a Siracusa" (Lettera ai parenti di Dione). Come si vede, Platone qui si barcamena nelle sue spiegazioni-giustificazioni appellandosi o a un caso o a un Dio.
Non ricordo in quale lettera, forse in quella sopracitata, troviamo una paradossale affermazione: "Perciò, chi è serio, si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all'odio e all'ignoranza degli uomini. Da tutto questo si deve concludere, in una parola, che, quando si legge lo scritto di qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti d'altro genere, se l'autore è davvero un uomo, le cose scritte non erano per lui le cose più serie, perché queste egli serba riposte nella parte più bella che ha; mentre, se egli mette per iscritto proprio quello che ritiene il suo pensiero più profondo, "allora sicuramente", non certo gli dei, ma i mortali "gli hanno tolto il senno"."
Erano anche quelli tempi nei quali esprimere il proprio vero parere poteva essere pericoloso. Socrate se lo permise e mal gliene incolse. Platone non ne ebbe il coraggio, e non è un caso che il suo pensiero abbia accompagnato le preoccupazioni della cristianità dolente nel medioevo e fino alla modernità.
La paura dell'intelligenza ha perseguitato gli uomini di ogni epoca, sebbene in misura diversa. Dopo la sorte toccata a Socrate, Platone era sempre sul chi vive. Questo è il motivo per cui, ad esempio, nella prima lettera a Dionisio, espressa la preoccupazione che le sue idee venissero divulgate, pretese che il destinatario la leggesse più volte per impararla a memoria e poi la bruciasse.
Vediamo ancora qualcosa di interessante, ad esempio, la seguente affermazione sulle cose umane: "Così almeno si può congetturare, per quanto è possibile congetturare quando si tratta di accadimenti umani". Sembra proprio che per Platone la vita individuale fosse più soggetta a circostanze casuali e imprevedibili che a qualche determinazione oggettiva di origine divina.
E così tornando al caso Dione, egli si esprime con una metafora: non c'è niente di strano nelle vicende umane se capita come al buon navigatore "il quale non ignora quando una tempesta lo minaccia, ma non può sapere quanto violenta sarà e quanto imprevedibile sarà la sua forza, e così inevitabilmente sprofonda. Nello stesso modo cause insignificantissime fecero cadere Dione". Ma che cosa sono queste cause insignificantissime se non le conseguenze del caso?
Ancora, nella lettera nona, spedita ad Archita, Platone sottolinea che, sebbene nulla sia più gradito che dedicarsi alle proprie occupazioni preferite, bisogna tener presente che "della nostra vita una parte appartiene alla patria, un'altra ai genitori, un'altra agli amici; e che molto anche si deve ai casi che ci càpitano durante la nostra esistenza". Qui di nuovo egli si appella al caso non apparendo affatto un determinista.
Se poi si vanno a vedere le sue Definizioni, non è poi così strano che manchi il concetto di necessità, mentre troviamo quello del caso, sebbene erroneamente inteso come "processo dall'ignoto all'ignoto, causa accidentale di un evento straordinario".
Per concludere, sottoliniamo di Platone la definizione di dono come scambio di favori e l'importanza attribuita a tutti quei concetti legati alla cosiddetta capacità individuale di esprimere abilità, scelta, volontà, opportunità, previdenza, occasione, ecc. che sono tutti, comunque, appartenenti alla sfera del volubile caso.
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