sabato 15 ottobre 2016

Il fondamento reale della inconciliabilità tra la scienza umana e la scienza divina e veneranda

Occorre partire dalle seguenti due premesse:

 1) Sia i credenti che i non credenti sono sempre stati accomunati dal medesimo interesse verso lo studio filosofico, matematico, scientifico, economico e storico. Anzi, nella relativamente recente esistenza dell'uomo cosciente, sono stati i credenti ad essere i primi depositari della conoscenza: originariamente, i funzionari di qualsiasi religione, i suoi sacerdoti, si sono elevati al di sopra dei loro popoli coltivando la conoscenza. E anche la scienza (europea) moderna è sorta dalla scienza di Dio, dalla teologia.

2) Ma la scienza moderna, a partire da Copernico, Galileo, Keplero, ecc. (scienziati pur sempre credenti) ha introdotto un elemento oggettivo di contraddizione tra la scienza di Dio e la scienza dell'uomo. Questa contraddizione riguarda il principale presupposto: come accostarsi alla conoscenza, come fare scienza? La risposta a questa domanda ha prodotto l'oggettiva inconciliabilità tra libera scienza e religione.

Vediamo perché e come. Lo scienziato non credente o, che pur credente, ritiene di dover conoscere la natura con i propri mezzi, concepisce una libera scienza, senza alcun divieto per le sue possibili scoperte, per le possibili leggi della natura da lui individuate. Lo scienziato credente o che è già scienziato di Dio (teologo) ritiene, invece, che la conoscenza scientifica abbia dei limiti, sia soggetta, insomma, ad alcuni divieti fondamentali, il principale dei quali che nessuna legge di natura scoperta dalla scienza umana può essere in contraddizione con la scienza di Dio, con la teologia, ossia con quella che Aristotele chamò "scienza divina e veneranda".

E qui sorge quella contraddizione contro la quale, in ogni epoca tutti hanno sbattuto la testa, anche se qualcuno conosceva già il problema e si avvicinò alla soluzione, in particolare Spinoza. Si tratta del fatto che, se si ammette una scienza divina che solo un Dio può possedere, l'uomo ne dovrebbe essere oggettivamente escluso: ergo, l'uomo non dovrebbe sapere nulla dei criteri utilizzati da un Dio creatore. In conclusione, dovrebbe essere cieco riguardo alla natura.

Ma, come un cieco ha bisogno di ordine per orientarsi tra gli oggetti che lo circondano (Diderot), l'uomo, reso cieco dalla convinzione di trovarsi di fronte a una natura creata da Dio e con criteri per lui inconcepibili, si è paradossalmente creato, mediante la religione stessa, uno specifico ordine, a lui più congeniale, fondato sulla connessione di causa ed effetto. E così ha attribuito al divino creatore quella perfezione che solo il principio di causa prima poteva garantire.

Questa è la contraddizione insolubile del rapporto tra scienza e religione, contraddizione che spiega la proibizione in ogni epoca di concetti esplicativi che si allontanassero troppo dal rapporto deterministico di causa-effetto, talché, per amicarsi la teologia, di recente, alcuni sono arrivati persino ad ammettere un determinismo probabilistico, dove è persino il caso a fungere da causa.

E non è finita qui. Come sanno gli studiosi più addentro al problema, quindi soprattutto i teologi, il determinismo fondato sulla causa prima divina, produce una conseguenza che ha fatto e continua a far tribolare gli scienziati della specola vaticana e gli scienziati dalla fede incondizionata: si tratta del dispendio. Perché lo spreco di tanti mondi non popolati, ci si chiedeva già quando l'Universo era ridotto appena al solo sistema solare e a una manciata di stelle fisse?

Ma soprattutto oggi, di fronte alle sterminate galassie e ai praticamente infiniti pianeti, il problema del dispendio è diventato una spina nel fianco, una contraddizione insolubile, per la scienza divina e veneranda. Allora, c'è da immaginarsi la difficoltà di accettare una teoria, come quella della dialettica caso-necessità, che pone al suo centro la legge del dispendio con il suo corollario: la legge della eccezione statistica.

Eppure, il paradosso è questo, che se l'autore di queste riflessioni non è credente, non lo è mica per coerenza con la sua teoria che respinge la causalità per i processi naturali: infatti che l'uomo, come già affermò Aristotele, non possa possedere una scienza è perché, proprio se crede in Dio, dovrebbe ammettere la propria impotenza di fronte alla scienza divina e veneranda e quindi dovrebbe ammettere la propria incapacità a stabilire i criteri della creazione divina, tra i quali quello appunto della causalità.

Allora, causa-effetto, ordine, economia, ecc. o, al contrario, caso-necessità, disordine, dispendio ecc. non possono essere attribuiti ad altri che all'uomo stesso: sono concezioni umane, e in quanto tali, vanno valutate. Allora, non si capisce perché, ancora oggi, ci siano studiosi credenti che pretendano attribuire a Dio il rapporto di causa-effetto, invece che altri rapporti o persino il rapporto di caso-necessità.

Bisognerebbe rileggere Leibniz, il quale, per evitare che il Dio "determinista" fosse costretto a intervenire con miracoli continuati, pose il caso sotto la sua ala. Ma si può dire di più: per ottenere in natura risultati strepitosi, senza l'intervento di miracoli continuati, c'è un solo "metodo", quello dispendioso delle eccezioni su grandi numeri: in altre parole il "metodo" concepito dalla dialettica caso-necessità.

Per concludere, c'è ancora qualcuno, oggi, tra i credenti, che, di fronte al gigantesco universo, può spiegare perché Dio avrebbe dovuto utilizzare il deterministico metodo fondato sul rapporto economico di causa-effetto per produrre una infinità di pianeti che, per coerenza deterministica, avrebbero dovuto contenere un'infinità di specie coscienti? Questo non sarebbe più un Dio creatore ma un Dio clonatore all'infinito: conclusione inammissibile quasi più per un credente che per un non  credente.

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