giovedì 24 agosto 2017

8) Il principale contrassegno del processo immunitario: l'involuzione delle cellule linfoidi

Dall'articolo di Milstein*, pubblicato su "Science" del 1985, si possono trovare sufficienti elementi per una interpretazione realistica della formazione dei linfociti B, che rappresentano le cellule anticorpali del sistema immunitario. I biologi hanno potuto fornire agli immunologi le basi per venire a capo del processo immunitario, quando hanno scoperto la struttura del genoma delle cellule linfoidi grazie al metodo del DNA ricombinante. Ma, nel cercare di venirne a capo, gli immunologi non sono stati capaci di comprenderlo teoricamente, perché fuorviati dalla "nuova immunologia" fondata sul concetto fittizio di riconoscimento-informazione.

Occorre, perciò, reinterpretare in termini dialettici le conclusioni della "nuova immunologia", ponendo il caso dove per gli immunologi c'è un meccanismo, un'informazione, ecc. Si tratta, inoltre, di mostrare il paradosso apparente per cui il sistema immunitario, che può essere considerato un prodotto maturo dell'evoluzione, e perciò un progresso evolutivo, dipende da trasformazioni di cellule staminali in cellule linfoidi che rappresentano una decisa involuzione, un vero e proprio ritorno ai primordi; ma sono proprio i caratteri arcaici di queste cellule che permettono il processo immunitario  negli organismi pluricellulari evoluti. Come abbiamo già dimostrato nella precedente sezione, l'evoluzione del "tutto" è prodotta dall'involuzione delle sue "parti".

Per Milstein, in seguito all'utilizzo del DNA ricombinante, cominciò ad emergere "un quadro coerente dell'arrangiamento dei geni delle immunoglobuline e del loro ruolo nella produzione della diversità. I precursori delle cellule produttrici di anticorpi non esprimono una immunoglobulina, ma durante il loro differenziamento in cellule pre-B e cellule B esprimono prima la catena pesante e poi la catena leggere. Il primo anticorpo prodotto si trova sulla superficie cellulare e funziona come recettore che riceve i segnali antigenici. Le cellule stimolate si dividono e si differenziano in cellule produttrici di anticorpi e in cellule della memoria".

Abbiamo già sufficientemente criticato questa impostazione a base di meccanismi, riconoscimenti, specificità, informazioni, e ora, di recettori, segnali, ecc. Perciò non ce ne occuperemo più. Ci occuperemo, invece, delle modalità del differenziamento delle cellule anticorpali, correlate a cambiamenti nelle strutture del DNA. "Come previsto -scrive l'autore-, il DNA della linea germinale contiene i geni V e C su differenti frammenti della catena desossiribonucleica. ma, oltre a questo, vi sono ulteriori frammentazioni, ... Le catene leggere e pesanti possono essere trascritte e tradotte solo quando determinati frammenti (della regione V e J nelle catene leggere e V, D e J nelle catene pesanti) vengono integrati mediante un meccanismo (sic!) di delezione. Durante questo processo d'integrazione si determina un enorme potenziale di diversità".

In sostanza, a partire da cellule ancora poco differenziate, il cui DNA è tipicamente eucariotico, si perviene a cellule differenziate, il cui DNA perde per delezione le tipiche sequenze "non codificanti", i cosiddetti introni, divenendo più simili al DNA dei procarioti. Il risultato è che ogni cellula differenziata è diversa dalle altre, perché casuale è l'integrazione dovuta a delezione. Da ciò l'"enorme potenziale di diversità".

Milstein ricorda, a questo punto, che "Per diversi anni fu un "dovere" per gli immunologi proporre una teoria riguardante l'origine genetica della diversità anticorpale". Prevalsero due tipi di teorie; le prime, dette teorie della linea germinale, "secondo le quali  tutta la diversità era ereditata con i geni presenti, appunto, nella linea germinale"; le seconde, dette teorie della diversificazione somatica, "in base alla quale i processi somatici generavano le diversità a partire da un piccolo numero di geni della linea germinale". Come si vede erano entrambe teorie premature. Ma per l'autore, "il meccanismo genetico", responsabile della produzione della diversità, include un pò delle due teorie.

In realtà, il processo di differenziazione dei linfociti B conferma ciò che abbiamo già osservato in altri tipi di cellule. In questo caso, in particolare, la struttura dei linfociti B, così simile a quella dei batteri, è soggetta a una ulteriore produzione di diversità perché favorisce un maggior numero di mutazioni puntiformi casuali, rispetto alle normali cellule eucariotiche "protette" dalle sequenze non codificanti. Non vedendo questa realtà, Milstein si limita a osservare: "ci sono poi le mutazioni somatiche puntiformi di cui resta ancora da chiarire il meccanismo (sic!)"

La cecità degli immunologi è, comunque, comprensibile: se essi cercano meccanismi per risolvere problemi risolti dal caso è perché la cecità dei biologi molecolari non è di nessun aiuto per loro. Si tratta di un circolo vizioso: se gli immunologi non vedono l'involuzione delle cellule che essi studiano è perché i biologi molecolari non hanno compreso l'involuzione di altri tipi di cellule, come abbiamo già dimostrato. Alla base di questa incomprensione c'è l'errata teoria degli introni precoci. I biologi molecolari, come abbiamo dimostrato in precedenza, non hanno compreso che l'evoluzione della cellula eucariotica è caratterizzata dalla formazione di sequenze ripetitive "non codificanti", che riducono l'entità delle mutazioni puntiformi dannose.

Se questo è il risultato dell'evoluzione, l'inverso sarà involutivo: è ciò che avviene nel processo di formazione dei linfociti B che, eliminando le sequenze ripetitive, aumentano la frequenza delle mutazioni puntiformi casuali. Ma, paradossalmente, questa involuzione è proprio ciò che permette a queste cellule di realizzare, nel loro complesso, la difesa dell'organismo da antigeni esterni. Comunque, pur mancando di un fondamento teorico realistico, nella sua ricerca empirica l'immunologo può fornire elementi che permettono di comprendere concretamente  come si svolge il processo immunitario. Così, Milstein ci può essere d'aiuto con la sua descrizione della risposta anticorpale distinta in tre stadi:

"Nel primo stadio, la maggior parte degli anticorpi riflette una scelta (sic!) molto ristretta in un vasto repertorio di combinazioni di geni della linea germinale, autoselezionati in base alla loro capacità di legare l'antigene. Nel secondo stadio, le cellule che esprimono queste combinazioni proliferano, e si generano dei mutanti che migliorano l'affinità [NB] dell'anticorpo per l'antigene. Nel terzo stadio, quando l'iniziale combinazione di geni della linea germinale e dei loro mutanti raggiunge un certo livello delle costanti di associazione, nuove combinazioni di geni della linea germinale e di mutanti somatici vengono selezionati per ulteriori miglioramenti della risposta immunitaria [NB]. Ovviamente i tre stadi non sono nettamente separati e tutti e tre i processi si sovrappongono per una certa durata. Per diversi motivi, il sistema si comporta coe un sistema darwiniano: l'adattamento è rappresentato da un miglioramento nel legame per l'antigene. [NB]"

Allora, questo "adattamento", "rappresentato da un miglioramento nel legame per l'antigene", come è stato ottenuto? L'intero processo appare del tutto simile a quello della resistenza batterica agli antibiotici, dove la cosiddetta selezione altro non è che la soppressione della maggioranza dei batteri non resistenti e la clonazione dei rari, eccezionali batteri mutanti, resistenti.

Nel caso dei linfociti B, possiamo vedere un processo analogo. In quello che Milstein chiama primo stadio, su un vasto repertorio di cellule, soltanto un piccolo numero -casualmente e come eccezione statistica- produce anticorpi che si legano all'antigene. Qui la selezione darwiniana si manifesta semplicemente come casuale corrispondenza eccezionale anticorpo-antigene. Nel secondo stadio, le cellule che producono anticorpi, leganti più o meno bene l'antigene di turno, proliferano rapidamente. Data, inoltre, la rapida clonazione e la costituzione genetica che favorisce le mutazioni puntiformi, cresce rapidamente il numero dei mutanti, fra i quali, sempre casualmente ed eccezionalmente, alcuni presenteranno anticorpi con un legame migliore nei confronti dell'antigene. Il cosiddetto terzo stadio altro non è che la prosecuzione del secondo: si tratta in definitiva non di stadi, ma di successive generazioni di cloni linfocitari.

Per concludere, si perviene a un progressivo, migliore adattamento nel legame anticorpo-antigene, attraverso l'ampia base del caso, relativo ai singoli numerosi linfociti, che si manifesta complessivamente 1) come eccezionale  adattamento di pochi linfociti in grado di produrre anticorpi leganti, con approssimazione, l'antigene del momento; 2) come proliferazione clonale di questi pochi linfociti che rapidamente diventano numerosi e costituiscono, perciò, di nuovo un'ampia base casuale, dalla quale escono fuori altri rari linfociti ancor più adatti a fornire anticorpi ancor più ricettivi per l'antigene. E così via di seguito, per successive generazioni, fino a quando il particolare ciclo si esaurisce. Ciclo che segue in maniera palese la legge del dispendio.

Alla fine del ciclo che cosa rimane? Rimane uno scarso numero di linfociti, chiamati "cellule della memoria", ossia cellule che mantegono un'elevata affinità con l'antigene specifico. Questa è la vera e unica specificità duratura: cioè, l'immunità acquisita. Si tratta, infatti, di cloni che mantengono una affinità nei riguardi di uno specifico antigene che hanno incontrato e che avranno qualche probabilità di incontrare nuovamente, come ad esempio un virus influenzale, anch'esso modificabile da casuali mutazioni. E la grande maggioranza dei cloni che fine fa? Viene eliminata, digerita da macrofagi. Se questa non è un'altra manifestazione del dispendio biologico, che cosa è?

La conclusione dell'articolo di Milstein è interessante perché pone, indirettamente, un problema fondamentale: "Mentre la selezione è la strategia (?!) della risposta anticorpale di un organismo animale, l'immunochimica del futuro tornerà ad un approccio istruttivo, dove l'antigene ci dirà quale struttura anticorpale dovremo costruire". La questione risulterà più chiara se prima correggiamo Milstein: la cosiddetta strategia anticorpale altro non è che il cieco risultato del rapporto dialettico caso-necessità, che si manifesta nella funzione complessivamente immunitaria del sistema composto di mille miliardi di linfociti B.

la questione è, dunque, questa: mentre la natura produce risultati non voluti e ciecamente necessari, in maniera dispendiosa, partendo dall'ampia base casuale dei suoi innumervoli singoli elementi, l'uomo, per ottenere risultati voluti, non può imitare la natura dispendiosa: deve, in altre parole, ridurre il peso del caso e con esso il dispendio. Ma, per fare questo, non è sufficiente la volontà di farlo immaginando meccanismi necessari che poi risultano velleitari, perché la natura non fornisce le risposte immaginate.

L'immunologia è come ogni altra scienza della natura: fino a quando non si comprenderà il rapporto dialettico caso-necessità di ogni processo naturale, fino a quando non si comprenderà l'ampia base della casualità, non si sarà in grado di valutare fino a che punto e per quali vie il caso può essere ridotto a favore di una necessità voluta e predeterminata. Questa è la questione principale che dev'essere risolta, prima teoricamente e poi praticamente, anche per il progresso della medicina umana.


 * Biologo e immunologo, premio Nobel per la medicina 1984.


                                                                        ----


Rileggendo il Capitolo XIV del mio Terzo volume inedito, "La dialettica caso-necessità in biologia" (1993-2002), capitolo riguardante il pensiero immunologico, ho ritenuto che fosse ancora valido e che fosse arrivato il momento di pubblicarlo in 10 post, quanti sono i suoi paragrafi.

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